«Racconto la periferia a corto di sentimenti»

ISPIRAZIONE «Me l’ha data Yeoshua quando ha detto che l’Italia è la famiglia»

RomaDalla culla alla bara, c’è dentro tutto. E commuove, spiazza, fa rabbia, però bisogna starci fino in fondo. È La nostra vita di Daniele Luchetti, commedia drammatica in partenza per Cannes, dove ci rappresenterà in concorso e buona Croisette a questo film pieno di spunti. A partire dal racconto di chi è, oggi, il neoproletariato delle periferie romane, tirate su a ruspe e truffe ambientali. Gente che, come il vedovo trentenne Claudio (Elio Germano), campa i suoi giorni, aggiustandoli sul mito del consumo e chi più accumula più vale. Se poi l’unica persona, che ti faceva da sponda contro il male di vivere era tua moglie (Isabella Ragonese), morta mentre i figli piccoli crescono tra centro commerciale e deserto sentimentale, disperarsi è dovuto. Magari ricorrendo a impicci e imbrogli, tra una sorella invadente (Stefania Montorsi) e un fratello tonto (Raoul Bova), che surrogano la famiglia andata in pezzi. Se poi il vicino di casa è un pusher de’ noantri (Luca Zingaretti), ecco il salto nel buio. Meno male che, alla fine, c’è un lettone sul quale abbracciare i propri figli e chi se ne frega se, fuori, il mondo è cattivo. Domani è un altro giorno e si vedrà, per dirla con Vasco, la cui canzone parte durante il funerale di mamma Elena. «Spesso il proletariato viene raccontato dall’alto in basso, come nelle commedie anni Settanta, dov’erano buffi e ignoranti, o in funzione politica», spiega Luchetti, che dopo Mio fratello è figlio unico spera in un nuovo applauso francese. «Ho voluto raccontare italiani e stranieri con lo stesso sguardo e senza fare sconti. Detesto i film basati su articoli di giornale: questi miei personaggi, li ho visti e conosciuti», incalza il regista, che nel cast ha incluso l’ex-moglie (la Montorsi) e uno dei suoi figli, quasi a ribadire una solida fiducia nel clan familiare. A suffragare la conoscenza sul campo di certi coatti laziali, Luchetti racconta come l’idea di far partire la vitale canzone di Vasco su una scena di lutto e contrizione gli sia venuta dopo aver visto un funerale, a Ostia (Pasolini docet: Ostia è un pozzo di San Patrizio, per chi abbia il gusto del burino). Dove una giovane tossica è stata seppellita al suono di Like a Virgin di Madonna. Anche l’intuizione di descrivere gli operai d’un cantiere, che arrivano da Frosinone in Mercedes, potendosi permettere di non farsi pagare dal padrone, è venuta dritta dritta dalla realtà, spiazzante rispetto alla sceneggiatura di Rulli&Petraglia (con Luchetti). E siccome la casa, bene primario, è chiodo fisso di ogni esistenza italiana, alta o bassa che sia, i palazzoni di Ponte di Nona, dove nessuno trova le parole per parlare al cuore, sono anch’essi personaggi muti. Proprio come i protagonisti di questa vicenda postpasoliniana, che alla domanda «come stai?» rispondono: «Se lo sapessi, non te lo saprei spiegare. Se lo sapessi spiegare, non mi potresti capire». Amen: è pietra tombale su ogni possibile contatto umano, bloccato soprattutto dalla corsa al possesso delle cose. «Non abbiamo più la capacità di vivere i sentimenti, se non possiamo più raccontarli. E non a caso il lettone di famiglia della sequenza finale è il punto di partenza», dice Luchetti, che s’inserisce, quindi, nella scia familistica del cinema italiano più recente. Sarebbe lo scrittore Abraham Yeoshua l’ispiratore principale del taglio familiare de La nostra vita, senza la cui osservazione («Ho capito che l’Italia è la famiglia») il buon Luchetti, ancorché padre e regista, dunque persona di mondo, abituata a gestire comunità, non avrebbe avuto ben chiaro il fulcro del costume nazionale. Del resto, si sa: quando la sinistra deve sdoganare i sentimenti più intimi (come raccontare la famiglia con struggimento, vedi il Nanni Moretti de La stanza del figlio), cerca pezze d’appoggio anche estere. Né, a proposito di estero, poteva mancare la polemica. «Cannes è l’ombelico del paese, che più ama il cinema. Vado a festeggiare le politiche culturali altrui.

Mentre Bondi, che non verrà per protesta contro Draquila, dovrebbe essere fiero degli artisti, che raccontano il Paese in modo libero. Francamente...», esita il cineasta, con lo stesso tono della Guzzanti, quando prendeva in giro D’Alema (abbonato a quell’avverbio stizzoso).

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