Milano - Qui a Niguarda, le chiamano «ronde». Cominciano quando nel cortile gira la voce che un appartamento si sta liberando. Un uomo in bicicletta dà il segnale, mentre un altro all’esterno fa il palo per controllare che nessuno venga a controllare. E poi arrivano con un piede di porco a sfondare la porta. Bastano venti minuti per tirarne giù una blindata e infilarci dentro gli abusivi. A pagamento.
Il racket delle case popolari a Milano funziona così, con un boss per quartiere che coordina le operazioni e una banda di scagnozzi al seguito pronta ad agire. Sotto compenso, naturalmente. «Ormai è diventato un lavoro su ordinazione: per un locale, ti chiedono mille euro, per due, duemila. E sono sempre gli stessi a gestire gli affari». Il viaggio nei quartieri dimenticati della città, quelli che i residenti chiamano «ghetto», comincia dalla zona di Stadera, in via Giorgio Savoia. Una via stretta e senza uscita che si allunga ai bordi della metropoli. Ci infiliamo sotto copertura, insieme al presidente dell’associazione Sos racket e usura, nelle scale e nei corridoi dei palazzi di proprietà del Comune e gestiti - fino al prossimo subentro dell’Aler - dalla Romeo.
Dunque, via Savoia. Sui marciapiedi, accanto ai portoni ci sono cumuli di mobili accatastati che stanno lì chissà da quanto tempo. Per accedere al primo cortile si passa da un cancelletto di ferro con la serratura rotta. È un porto di mare, si entra e si esce senza alcun controllo. «Siamo nella tana del lupo, lo sa vero? Se ci vedono con voi, ci tagliano la gola». La tana del lupo vuol dire a pochi metri dalla scala dei boss che hanno in mano il racket degli appartamenti e a un passo dalle loro finestre. Il signor G. cammina con gli occhi bassi per non farsi riconoscere. Le «sentinelle» si sono già passate la voce e lui non ha nessuna intenzione di rischiare. Si guarda intorno e poi inizia a raccontare, sussurrando. La signora «Gabetti» di via Savoia, quella che piazza gli abusivi dietro compenso, è una napoletana. È lei che fa la soffiata. «Quando c’è da occupare usano una donna incinta e appena l’appartamento è libero ci mettono dentro i marocchini. La polizia arriva, la vedono con la pancia e se ne vanno». Lei, il capo, intasca la mazzetta concordata con i nuovi inquilini e se la spartisce con la banda. A volte si prendono pure l’affitto.
Spiega il signor G. che saranno almeno cinque o sei anni che non avviene un’assegnazione regolare. «Gli ispettori non sono mai usciti, quelli del Comune nemmeno. Che controlli vuole che ci siano». Giurano che tutti sanno e nessuno ha il coraggio di denunciare, per paura delle ritorsioni. Ma come si fa a vivere così, prigionieri nelle proprie case? «Almeno in galera sopravvivi. Qui invece ti ammazzano, sono tutti delinquenti e non hanno nulla da perdere».
N. ha comprato casa in Largo Rapallo, quartiere Niguarda. Sono anni ormai che abita lì, ma da quando è arrivato il clan dei napoletani, la situazione è peggiorata. «Saranno due o tre famiglie, tutte collegate. Gestiscono le occupazioni, mano a mano che muoiono gli anziani, piazzano gli abusivi». Dicono i più informati che controllano anche lo spaccio di droga. Va bene, largo Rapallo non è piazza San Babila, che discorsi. Però prima si stava bene e non c’erano tutti questi problemi. E lei adesso è furiosa, non ne può più di subire angherie e soprusi. «Come contribuenti, noi paghiamo anche le loro spese. Si mangiano i nostri soldi». L’ultima volta quando hanno sfondato, N. ha dovuto dire alla polizia che c’era una rissa. «Altrimenti per un’occupazione non escono mica». Ripensa al suo quartiere. «Siamo in una terra di nessuno. Il Comune ci ha lasciato in mezzo a un guado. Ci sentiamo schiavi e ostaggi». Dei clan, del racket, della malavita. Dopo tutto quello che si è sentito dire in questi anni, alle promesse e alle dichiarazioni che rabbia le viene. «Per avere la dimostrazione che le istituzioni fanno qualcosa, l’amministrazione deve fare espropri, a raffica». Pazienza se ci sono bambini, pazienza se si tratta di intere famiglie. È l’unico modo per dimostrare che stanno dalla loro parte. «Questa gente qui o la combatti con le loro armi, altrimenti se usi il fioretto, ti mangiano».
In via Ciriè, sopra l’appartamento della signora F. vive il boss del civico 2. Le altre famiglie del clan invece stanno all’1 e al 6, in un fazzoletto di strada ai margini della città. «Ma tutti lo sanno che qui funziona così. C’è la feccia dell’umanità». Poi con la rassegnazione di chi conosce ormai la situazione a memoria, ripete la stessa identica sequenza. «Quando uno va all’ospedale o ha le tapparelle abbassate, vengono subito e stai tranquilla che la casa nel giro di qualche ora è occupata». Prima, spiega F. il boss era solo. Un pregiudicato uscito dal carcere tre anni fa che in poco tempo ha messo su la sua gang. Stanno lì nei giardinetti e spacciano. «Certo, altrimenti come farebbe a sopravvivere. È anche protetto dagli assistenti sociali».
N.
chiude il suo taccuino con gli appunti, gli ultimi che si è segnato per non dimenticare neppure un dettaglio di quello che succede in Largo Rapallo. «Sa cosa le dico? Di paura si muore tutti i giorni. Ma lottando e agendo si muore una volta sola».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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