«L’abbonato Rai ha sempre un posto in prima fila. Proprio come Giuliano Amato». Obiettivamente suonava bene. Lo slogan della tv pubblica targata Topolino poteva essere questo. Oppure «Mettetevi una mano sul cuore e una sul portafoglio», come disse l’allora premier sul teleschermo varando la famosa Finanziaria lacrime e sangue da 93mila miliardi di lire. Come dire: un presidente di garanzia. Nel ’92, da Palazzo Chigi, garantì per esempio che «con questa esperienza chiudo la carriera». L’anno dopo garantì che si sarebbe «ritirato presto dalla vita politica». Più tardi, da una poltrona diversa, garantì che «mi considero imprestato alla politica», e che «la politica non può essere la vita», impegno oltremodo garantito negli anni successivi, a voce e per iscritto, perché, come dice lui, «non voglio essere protagonista di molte stagioni». Garantito. Sarà per questo che, dopo 17 anni in cui è stato presidente del Consiglio, capo dell’Antitrust, ministro delle Riforme, ministro del Tesoro, ancora presidente del Consiglio, vice presidente della convenzione europea, senatore, ministro dell’Interno, ebbene, mister «chiudo presto la carriera» ce lo siamo ritrovato a un passo da viale Mazzini. Fino alla dichiarazione di Berlusconi che ieri ha fugato ogni dubbio: «Amato presidente Rai? È un’ipotesi che non esiste».
Pensare che le voci si sono rincorse fino a qualche ora fa. Da ultimo, l’uscita speranzosa di Pier Ferdinando Casini, chissà, forse il dottor Sottile lo avrebbe ingaggiato come intrattenitore del sabato sera: «Spero che Amato sia votato all’unanimità, non perché non dà fastidio a nessuno, ma perché dà fastidio a tutti». E chi sarebbe questa personalità selvaggia, questo scomodo moralizzatore, questo condottiero duro e puro? Amato. Non Antonio Amato, quello della pasta. No, no, proprio Giuliano, classe 1938. Ecco, è questo il nome nuovo del Pd. A dispetto del fatto, come scriveva Luigi Pintor che «questo rampollo genera nell’opinione di sinistra sentimenti opposti al suo cognome. Il contrario delle cucine Scavolini». Ma d’altronde, serve una scelta autorevole, «una scelta di coraggio»: lo stesso coraggio che Eta Beta sfoderò in occasione del suo one man show migliore, quando nella notte tra il 9 e 10 luglio 1992, da capo del governo, ordinò un prelievo improvviso del 6 per mille da tutti i depositi bancari. Lo stesso coraggio che ostentò qualche mese dopo, quando definì «un semplice riallineamento» la tremebonda svalutazione della lira nei confronti del dollaro, salvo poi riconoscere come niente fosse d’«aver mentito agli italiani». Lo stesso coraggio che occorre per passare da craxista a anticraxista, da sinistro radicale a postcomunista, da laico a filovaticano, filocentrista, talvolta quasi filoberlusconiano, il più formidabile strizzatore d’occhi della Repubblica, ha flirtato con tutto l’arco costituzionale, da Diliberto ad Alemanno. Ma sempre con «grandissima autorevolezza».
C’era chi l’aveva candidato alla presidenza Rai per avere «una ventata di trasparenza». Per smarcarsi dai partiti, ci voleva uno nato nel Psiup, poi passato nel Psi e poi nei Ds, nemico e poi delfino e poi pescecane di Bettino Craxi, che pure lo proiettò nell’Olimpo della politica. Del suo rapporto con il capo socialista s’è detto e scritto, e non c’è altro da dire e scrivere. Ai tempi d’oro del Psi giurò di «prendere il Craxi per le corna», cioè accettarne pregi e difetti. Poi, ai primi avvisi di garanzia di tangentopoli, Amato si rifiuta persino di nominarlo, «è politicamente finito». E di fronte ai pm cade dalle nuvole: «Non immaginavo tanto marciume», disse lui che in pratica è entrato nel partito con Filippo Turati. Non si è mai recato ad Hammamet, e ha disertato il funerale del leader. Il quale, nei momenti di maggiore rabbia, lo definiva «un vomitevole voltagabbana». Del resto, come ha scritto Francesco Merlo, «non c’è storia senza tradimento, dai tempi di Eva a quelli di Amato». Ma mentre Eva dai piani alti è stata cacciata, il dottor Sottile è rimasto: ma sempre, ricordiamolo, «con grandissima autorevolezza».
Odiato e riverito, soprattutto a sinistra. Occhetto si scagliava contro le sue leggi «odiose e inique». D’Alema si è ben guardato, nei primi anni ’90, di entrare nel suo «governo dei sacrifici», al grido di «siamo mica fessi». Poi alla prima occasione lo ha nominato ministro. Perché Amato è pur sempre Amato, sebbene ancora oggi ci interroghiamo sull’origine del surplus di questo cardinal Mazzarino torino-siculo-toscano. Per Gasparri «da studiare all’università per capire cosa non fare da grandi», per Bassanini «è difficile avere lo stomaco che ha lui», per Rodotà «è un semplice esecutore di qualsiasi cosa gli venga chiesta», insomma un Richelieu di casa nostra che si vanta di «produrre idee per la testa d’un altro» senza curarsi «di dove vadano a finire». Da ministro dell’Interno del Prodi due, invece, si è divertito a cesellarle di persona, queste idee. Il 30 maggio 2007 disse: «Consiglio ai vigili del fuoco di pagare la benzina con i soldi dell’affitto». Il 4 dicembre 2006 disse che «i cantanti neomelodici napoletani celebrano la camorra». A un convegno sull’Islam, ci scappò una mezza crisi diplomatica, quando sparò: «Dio che autorizza a picchiare le donne rientra nella tradizione siculo-pakistana». Ha firmato il decreto sulla clandestinità a braccetto con il ministro comunista Paolo Ferrero, che sognava l’abolizione delle frontiere.
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