Il rapporto esplosivo che demolì lo stalinismo

Il rapporto esplosivo che demolì lo stalinismo

Quel che stupisce oggi del comunismo è che ci sia ancora qualcuno disposto a crederci come un’idea capace di risolvere i problemi del genere umano. Se si può capire che una simile fede possa ancora fiorire in menti seccate dall’ideologia e in disagiati Paesi del Terzo Mondo, si stenta a credere che lo stesso possa accadere nell’Occidente liberale e vincente; che in Europa, in Italia, ci siano uomini e partiti che si definiscono comunisti: e ancora più uomini e partiti non tanto segretamente convinti che l’Errore non fosse del sistema ma degli uomini che l’avevano guidato. Eppure - se la sconfitta ufficiale del marxismo applicato è del 1989 - i suoi crimini e fallimenti sono noti ormai da quel 1956 in cui a Mosca vennero ammessi e rivelati gli «errori» del passato e a Budapest li si aggravò dando la spinta iniziale al crollo del Muro.
Proprio in questi giorni, mezzo secolo fa, al Cremlino si svolgeva il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Vi partecipavano 1.436 delegati, più i rappresentanti di 55 «partiti fratelli». Stalin era morto da tre anni e gli era succeduto Nikita Krusciov. Ex operaio, figura solo in apparenza grigia, Krusciov aveva rapidamente vinto la lotta per la successione e iniziato a attenuare i metodi repressivi del periodo staliniano. Aveva intrapreso anche una politica estera più flessibile e aperta di quella del suo tremendo predecessore, e scelse di dare l’affondo nel corso del solenne congresso del Pcus.
Contro l’intransigenza internazionalista e rivoluzionaria di Stalin, il suo erede sostenne che il socialismo avrebbe potuto affermarsi anche per vie parlamentari e proclamò come parola d’ordine la «coesistenza pacifica» con il mondo capitalista, avviando al contempo la linea della competizione economica con gli Usa. Prima o poi - disse - le nostre popolazioni mangeranno più carne degli americani. L’Urss era ridotta allo stremo da quarant’anni di comunismo e incredibilmente ci fu chi - in patria e nel mondo, specie nel Pci - gli credette, ma da allora quello di Krusciov fu ribattezzato ironicamente «socialismo del goulash» cioè dello spezzatino.
La svolta, già brusca, era niente rispetto all’esplosivo «Rapporto Segreto» (testo integrale in www.ebbemunk.dk/stalin/krusciov1) che Krusciov tenne nella notte fra il 24 e il 25 febbraio, a porte chiuse, per quattro sconvolgenti ore. Nei giorni precedenti alti esponenti del partito avevano già - per la prima volta - denunciato il culto della personalità creato da Stalin e, genericamente, i suoi metodi. L’affondo kruscioviano fu violentissimo. La platea conosceva già, in parte, i metodi di colui che aveva fino a allora venerato come un dio ma rimase esterrefatta nell’apprendere dalla bocca del suo successore il lungo elenco dei crimini di Stalin, peraltro abbondantemente incompleto. Krusciov cominciò dichiarando «intollerabile ed estraneo allo spirito del marxismo-leninismo esaltare una persona e farne un superuomo fornito di qualità soprannaturali a somiglianza di un dio». Rivelò poi che già nel 1922 in una lettera ai dirigenti del partito considerata come il suo testamento, Lenin diceva: «Stalin è troppo arrogante e questo difetto, che può essere tollerato tra di noi e nei rapporti tra comunisti, non è tollerabile in chi occupa il posto di Segretario generale. Perciò propongo che i compagni esaminino la possibilità di allontanare Stalin da tale carica e di sostituirlo con un altro uomo che, prima di tutto, si differenzi da Stalin per una sola dote, cioè una maggiore tolleranza, una maggiore lealtà, una maggiore gentilezza, una maggiore considerazione per i compagni, un temperamento meno capriccioso». Portando altre prove, Krusciov aggiunse che «i difetti di Stalin, che al tempo di Lenin erano solo in germe, assunsero il carattere di un autentico dispotismo, che ha arrecato indicibili danni al nostro partito». Stalin, precisò, «esigeva una sottomissione assoluta»; la pratica della deportazione di massa fu applicata prima ai nemici del leninismo - trotzkisti, zinovievisti, bukhariniani, già da tempo sconfitti politicamente - «e poi anche contro molti onesti comunisti, contro i quadri del partito». Stalin aveva rinunciato al «metodo leninista della lotta ideologica sostituendolo con quello della violenza amministrativa, delle repressioni in massa e del terrore... Arresti e deportazioni in massa di parecchie migliaia di persone, esecuzioni senza processo, crearono condizioni di insicurezza, di paura e di disperazione».
Stalin, disse Krusciov, «fece ricorso ai metodi estremi e alle repressioni in massa quando la rivoluzione era già vittoriosa, quando lo Stato sovietico era ormai forte, quando le classi sfruttatrici erano già liquidate, quando le relazioni socialiste erano solidamente radicate in tutti i settori dell’economia nazionale, quando il nostro partito era politicamente consolidato e rinforzato sia numericamente che ideologicamente». Citando sconosciuti documenti d’archivio, il nuovo capo sovietico rivelò che le repressioni in massa erano aumentate enormemente dalla fine del 1936, «contro lavoratori onesti del partito e dello Stato sovietico». Molti attivisti del partito, dei soviet e dell’economia «che erano stati bollati come nemici, non furono mai in realtà nemici, spie o sabotatori, ma sempre onesti comunisti: non si era fatto che bollarli d’infamia in questo modo ed essi, spesso incapaci di sopportare più a lungo barbare torture, si erano autoaccusati di ogni sorta di delitti mostruosi e inverosimili»: dei 139 membri e supplenti del Comitato centrale del partito, eletti al XVII Congresso, «98 erano stati arrestati e fucilati, cioè il 70 per cento, per la maggior parte nel 1937-38». Stalin, incalzò il suo erede, «era un uomo molto diffidente, morbosamente sospettoso», fino alla patologia, e in ogni cosa vedeva «nemici», «persone con doppio volto», «spie».
In un crescendo che non smise di suscitare stupore nei membri del congresso, Krusciov demolì anche il mito dello Stalin «Grande condottiero» durante la Seconda Guerra Mondiale, che non aveva saputo preparare: «Conseguenze gravissime, soprattutto nei primi giorni di guerra, risultarono dallo sterminio ordinato da Stalin di numerosi capi militari e di militanti politici tra il 1937 e il 1941... Ma per molto tempo ancora il nervosismo e l’isteria, di cui Stalin dava prova opponendosi a operazioni militari efficaci, continuarono a pesare in modo considerevole sulla bilancia». Stando sempre lontano dal fronte, «si immischiava nelle operazioni e diramava ordini che non tenevano alcun conto della situazione reale in un dato punto del fronte e che non potevano tradursi se non in immense perdite di effettivi. Questo è “il genio” militare di Stalin», concluse Krusciov che poi passò ad analizzare «le deportazioni in massa di popoli interi, strappati alla terra natale con tutti i comunisti senza eccezione; deportazioni che non erano giustificate da alcuna necessità di carattere militare».
Secondo il Libro nero del comunismo, i trent’anni di regime staliniano provocarono la morte di almeno 20 milioni di persone. Tra il ’43 e il ’44 furono deportati in Siberia e in Asia centrale, oltre all’intera popolazione cecena, gli appartenenti a numerose comunità etniche e religiose, tra cui calmucchi, tartari di Crimea, tedeschi del Volga e greci del Mar Nero: nella maggior parte dei casi si può parlare di veri genocidi. Tuttavia (o anche per questo) ancora oggi - a dimostrare ulteriormente come il pericolo comunista non sia ancora passato - circa il 40 per cento della popolazione russa considera positivo l’operato di Stalin e un sondaggio dell’anno scorso ha addirittura stabilito che l’ex dittatore è considerato dal suo popolo come il migliore leader comunista dell’Urss, molto di più venerato del padre della rivoluzione Lenin. Avrebbero bisogno di una rilettura del pur reticente «Rapporto segreto» di Krusciov, che conclude: «Compagni, se il culto della personalità ha raggiunto simili mostruose proporzioni... la nostra nazione ha creato numerosi cortigiani e specialisti del falso ottimismo e della frode. Non bisogna nemmeno dimenticare che l’arresto di numerosi dirigenti del partito, dei soviet, dell’economia, ha reso incerto il lavoro di molti militanti piombati nell’insicurezza, diventati eccessivamente prudenti, timorosi di ogni novità, paurosi della loro ombra e di conseguenza privi di spirito di iniziativa nel loro lavoro».
L’uomo «che ha più fatto per la liberazione dell’umanità», come era stato definito Stalin, dopo il congresso del 1956 era ormai quasi messo a nudo come uno dei più grandi criminali della storia, colpevole contro tutto il consorzio umano, oltre che verso il suo popolo. In Italia però il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, cercò di minimizzare l’importanza delle rivelazioni, la cui verità conosceva per la sua lunga esperienza di alto dirigente politico a Mosca negli anni Trenta e durante la Seconda Guerra Mondiale. Togliatti riaffermò la superiorità intrinseca del sistema politico sovietico rispetto al parlamentarismo occidentale e ribadì che il sistema monopartitico non era una limitazione della democrazia. In ottobre, neanche otto mesi dopo il «Rapporto segreto», in un’Ungheria soffocata dalla Cortina di Ferro la protesta popolare divenne insurrezione aperta. Alle speranze di libertà - o almeno di possibili, reali vie nazionali al socialismo - il successore di Stalin rispose con l’invasione armata del piccolo Stato sfinito dalla miseria e dall’oppressione, interna e sovietica. Seguirono tribunali speciali, condanne a morte, deportazioni in Siberia, a perpetuare il passato. Per i più lucidi e onesti comunisti nostrani fu il crollo delle speranze nell’Urss, ma Togliatti e i dirigenti del Pci si dichiararono in favore dell’invasione e ribadirono la solidarietà del Pci con i regimi e le «società socialiste». Né il distacco di una pattuglia di intellettuali, di pochi politici marginali e di 400mila iscritti (fra il ’55 e il ’57) bastò a smuovere il partito e i suoi principali dirigenti, in buona o in cattiva fede. L’ingenuità popolare, poi, fece sì che il Pci continuasse a crescere, dal 19% del 1946 al 34,5 del 1976.
La denuncia di Krusciov del febbraio 1956 era sincera e appassionata, ma Stalin era accusato per la sua politica solo a partire dal 1934: in questo modo si salvava tutto l’operato di Lenin e venivano taciuti crimini staliniani di dimensioni gigantesche, come la collettivizzazione forzata, le forzature dell’industrializzazione e le carestie provocate. Anzi, che il partito denunciasse i crimini di Stalin veniva addotto come prova della sua vigilanza.

Insomma Krusciov attribuiva tutte le degenerazioni del comunismo a un solo uomo, nel tentativo di salvaguardare l’infallibilità del partito e della sua ideologia, mentre erano del comunismo in sé, insite nel sistema e ancora di più nell’idea. I fatti di Budapest lo provarono. Ce n’era abbastanza per capire che il mostro doveva essere abbandonato. Lo fecero in pochi. E non pochi superstiti ci affliggono ancora oggi.

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