Il razzista più scemo trova il razzismo anche dove non c’è

Caro Granzotto, mi riferisco alla presa di posizione di Gianfranco Fini sulla cittadinanza agli immigrati residenti e alla schietta risposta che gli ha dato Umberto Bossi. Anche non entrando nel merito, non le sembra che sia inconcepibile che una questione del genere sia poi ridotta al razzismo e antirazzismo? Ma di questo passo se dichiaro che non mi piace il kebab, la qual cosa è vera, o detesto la rozza arte africana, anche questo è vero, finirò per essere accusato di razzismo?

Come di questo passo? Ci siamo già dove lei pensa finiremo, caro Borrelli. Lei ha scritto «rozza arte africana», quanto basta per finire, per quell’aggettivo in più, nella lista nera del razzismo. E io, scrivendo «lista nera», se proprio non razzista, ma giusto per un pelo, son già bello che finito in quella dei violatori del Canone del politicamente corretto, un crimine sociale di prima classe. Definendo rozza l’espressione artistica dei popoli del Continente Nero (rieccoci, col nero) s’è ficcato nei guai, caro Borrelli, come tutti coloro che osano esprimere un giudizio discriminatorio. Per formulare il quale ha avuto l’ardire di giustapporre e dunque di mettere in competitività il talento dell’anonimo dogon che intagliò nel legno una tribale statuetta (roba rozza), con quella, mettiamo, di Michelangelo che dal marmo trasse il suo David (roba sublime). Non si fa. Lo vietano, nell’ordine: il relativismo che oggi, come avrebbe detto il grande Mike, va per la maggiore; quella incommensurabile bischerata della political correctness e il «fumus» razzista, sempre aleggiante quando ci sono di mezzo cose e uomini che non siano, mettiamo, di Bergamo. C’è poco da star allegri, caro Borrelli: l’aver posto sulle teste del genere umano tutta una serie di spade di Damocle (e quella attinente il razzismo più che una spada è una mannaia) ha finito per sclerotizzare il pensiero, per castrare il ragionamento. Quando lo spettro del razzismo è sempre in agguato le argomentazioni vanno a pallino: non è possibile discutere serenamente del problema relativo all’immigrazione quando basta dire che è necessario regolamentarla per vedere tutta la società civile saltar su e gridare al razzismo. Giorni fa incappai in questo titolone del Corriere della Sera: «La gaffe razzista del ministro di Sarkozy». Orpo, mi dissi, cosa avrà mai detto il ministro di Sarkozy (che poi seppi essere il titolare degli Interni, Brice Hortefeux)? Presto detto: rispondendo a chi gli faceva notare la presenza di un giovane arabo al meeting estivo dell’Ump, il partito di Hortefeux, questi rispose: «Quando ce ne è uno ça va, è quando ce ne sono troppi che arrivano i problemi». Embé? Tutto qui lo «scandalo»? E dove mai si cela, in quella battuta, il veleno razzista? Sulla constatazione che gli arabi, quando in troppi, creano problemi (a casa loro o in trasferta)? Li creano o possono crearli anche i tifosi, i bambini dell’asilo Mariuccia, le signore che s'avventano sui saldi di fine stagione. Càpita che quando «in troppi» gli esseri umani arrechino dei problemi. Non sempre, ma càpita. Se affermare questa banale verità non offende né discrimina i tifosi, i bambini dell’asilo e le battagliere predatrici di saldi, perché mai dovrebbe suonare offensiva e discriminatoria nei confronti degli arabi? Sa come la penso, caro Borrelli? Che cercare il razzismo dove razzismo non c’è è la massima manifestazione del più bieco (e stupido) razzismo.

Ecco come la penso.

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