Il re dell’isoletta dei famosi «Perché vengono qui? È ovvio, mangiano gratis...»

Era il ritrattista del poeta Biagio Marin. A 11 anni inseguì per mare il padre fino in Istria. Parla solo il dialetto di Grado ma gira il mondo. Con una polizza per il rimpatrio della salma

Il posto sarebbe piaciuto a Ernest Hemingway: un capanno piantato su una mammella di sabbia, in tutto 300 metri quadrati di mota, un niente in mezzo al mare che se lo mangia. Il romanziere arrivò per la prima volta da queste parti nel 1918, da soldato. S’era arruolato come volontario nella Croce rossa. A Fossalta di Piave si beccò una mitragliata al piede destro e le schegge di una granata austriaca nelle gambe. Ci tornò dopo la seconda guerra mondiale, da turista. Qui ha ambientato Addio alle armi e Di là dal fiume e tra gli alberi. Qui amava riscaldarsi nei casoni dopo essere rimasto tutto il giorno in barca a pescare oppure appostato dentro una botte nell’umido della laguna ad aspettare il passaggio delle anatre. Qui, in una piovosa giornata autunnale del 1948, conobbe Renata, la contessina protagonista di Across the river and into the trees. Il barone Nanyuki Franchetti l’aveva invitato a una battuta di caccia. Sulla strada per Caorle il conte Carlo Kechler fece salire sulla sua Buick una ragazza di 19 anni, Adriana Ivancich, e a distanza di oltre mezzo secolo ancora si discute se a ispirare il personaggio di Renata sia stata lei, che chiamava il romanziere Papa venendone ricambiata con Daughter, figlia, oppure Afdera Franchetti, sorella di Nanyuki, che nel 1957 sarebbe diventata la quinta moglie dell’attore Henry Fonda.
Anche Witige Gaddi sarebbe piaciuto a Ernest Hemingway. Sembra uscito dalle pagine del racconto più epico, Il vecchio e il mare. Non tanto per la faccia biscottata dal sole e per le mani sfrangiate a furia di riparare nasse e tramagli, quanto piuttosto per l’ardimento. Aveva appena 11 anni il giorno in cui, sul guscio di noce che gli aveva costruito il padre, inseguì di nascosto in Adriatico il genitore che con la barca a vela accompagnava alcuni facoltosi diportisti in Jugoslavia: «Quando nel porto istriano s’accorse della mia presenza, mi diede un ceffone e mi rimandò a casa per mare, tutto solo com’ero arrivato».
Ragioni anagrafiche - è nato nel 1940 - hanno impedito al Viti di partecipare all’epopea hemingwayana. Però è lui il custode del più pittoresco casùn della laguna di Grado ed è sicuramente da lui che si sarebbero premurati di portare l’illustre ospite. Davanti al suo focolare hanno sostato, e continuano a sostare, un po’ tutti. Non soltanto gli scrittori, da Pier Paolo Pasolini a Claudio Magris. Anche capi di Stato, Kurth Waldheim; teste coronate, Ranieri di Monaco; commissari europei, Franz Fischer; imprenditori, Cesare Romiti; registi, Roman Polanski, Ermanno Olmi; attori, Richard Gere, Bo Derek, Corinne Clery, Valeria Marini; cantanti, Vasco Rossi, Laura Pausini, Elio e le Storie tese; presentatori, Corrado Tedeschi, Luana Colussi; giornalisti, Bruno Vespa, Oliviero Beha. «Un giorno attracca lì fuori Maurizio Felluga, quello dei vini. Dallo yacht di 20 metri scende una cavallona storna, 48 di piede, denti spetenài, capelli rossi che sembravano una cassetta di gamberi rebaltà. Xera la principessa Sarah Ferguson». Ha respinto solo Enzo Biagi. «Niente di ideologico, pace all’anima sua. È che pretendeva il pesce lesso sensa oio e sensa limon. E solo acqua minerale. Ma va’ a Barbana, gli ho detto», che sarebbe il santuario dei frati sull’isola vicina. E pensare che l’oasi del Viti si chiama Biviacqua, «perché i padroni xera sempre imbriaghi».
Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ci è venuto col presidente della Juventus, Giovanni Cobolli Gigli, ed entrambi stregati dal luogo e dall’uomo hanno promesso di portarci Sergio Marchionne, l’amministratore delegato del gruppo Fiat. «“Di che partito sei?”, m’ha chiesto Chiamparino. Della Lega, gli ho risposto, e quando Umberto Bossi viene a Grado balla in piazza con mia sorella Zita. “Sai, io voglio fare il partito del Nord”. Auguri».
Roberto Baggio arrivò al casone negli Anni 90, reduce dai Mondiali, e da allora ritorna stagione dopo stagione per andare a caccia col suo labrador. Dalla testimonianza sull’albo d’oro si direbbe che ormai abbia imparato benissimo il graisan, il dialetto gradese più simile al veneziano che al triestino, lingua ufficiale sull’isola di Witige Gaddi: «Co’ tempo de caligo, co’ tempo de nevera, vegnemo catate», con la nebbia o con la neve, veniamo a trovarti. Tutti si sentono in dovere di lasciare una dedica. Quella dell’avvocata Annamaria Bernardini de Pace rivela l’estasi dell’innamorata: «Principe della laguna, il mio cuore s’è sperso». Quella di Vittorio Sgarbi lo smarrimento dell’oratore: «Senza parole».
Arrivano con uno dei due taxi d’acqua in servizio nel porto della cittadina goriziana. Lui li precede col Patriarca Elia, il suo bragozzo, intitolato al carismatico vescovo greco di Aquileia che trasmise ai veneziani il culto per San Marco: «Grado xe la mare de Venessia, lo scriva in grando». Stanno qui, mangiano e bevono, ascoltando rapiti le ciàcole del Viti. Quando non parla del borèto alla gradese, la più tipica ricetta di pesce, racconta della Sionera che si materializza in laguna durante le tempeste, una creatura mitologica temutissima dai pescatori, personificazione delle forze naturali ostili all’uomo.
Ma perché i Vip di mezzo mondo si danno appuntamento qui? «No’ se paga, par quelo i vien!», ridacchia Witige Gaddi. Per accogliere degnamente Denis Mack Smith, ha indossato la maglia della Viribus Unitis, la corazzata dell’impero austroungarico affondata dalla nostra Marina nel porto di Pola nel 1918. Non è dato sapere se lo storico inglese abbia gradito. «Tanto, xe vegnù par bever i vini del Collio», si assolve il padrone di casa, che ricorda perfettamente di come il degustatore all’ingrosso, fra una bottiglia di Ribolla gialla, una di Cabernet Sauvignon e una di Picolit, non abbia nemmeno voluto che gli fosse cambiato il bicchiere. D’altronde questa non è mai stata Italia e non lo è neppure oggi. L’Italia comincia a ponente, oltre il canale di Portobuso, nella laguna di Marano. Qui è sempre stata ed è ancora Austria. Sul casone sventola la bandiera della Carinzia. L’isoletta era fra le mete preferite dello sfortunato governatore Jörg Haider. All’interno sono appesi il ritratto dell’imperatore Francesco Giuseppe e l’aquila asburgica. «Fu Franz Joseph I nel 1892 a dichiarare con bolla imperiale Grado non più villaggio di pescatori ma città turistica». Ed è per questo che Gaddi ci tiene a puntualizzare che papà e mamma erano austriàchi, con l’accento sulla a. Non italiani.
Che mestiere facevano?
«Mia madre Valeria andava in bicicletta, le cassette sulla testa, a vendere il pesce nei paesini del Friuli. Mio padre Ernesto era velista della scuola di Adelchi Pelaschier, il papà di Mauro, timoniere di Azzurra. Alle Olimpiadi di Helsinki, nel 1952, Adelchi tirò fuori un bottiglione di rosso e si mise a cantare La mula di Parenzo: “La mula de Parenzo / l’ha messo su bottega / de tuto la vendeva / fora ch’el bacalà”. Fu tolto per sempre dalla nazionale. Con i danni di guerra mio papà si fece la barca invece di aggiustare il tetto della casa. Mia mamma voleva copàrlo».
E lei che mestiere ha fatto?
«Li ho fatti tutti. Ero il ritrattista ufficiale del poeta Biagio Marin. Lo fotografai nella vita quotidiana per un anno intero. Volevo il suo permesso per esporre le 720 immagini. “Facci una mostra quando muoio, così valgono di più”, mi suggerì. Per cui continuavo a chiedergli: ma quand’è che muori? Alla sua scomparsa, ho rinunciato e le ho regalate al Comune. Sono stato anche ufficiale di macchina sulle navi della Costa crociere. Naia in Marina, 26 mesi, Dio stramaledica Andreotti che xera ministro della Difesa. Ai corsi di Taranto mi chiesero: “Tu o tuo padre siete comunisti?”. Nossignor, repubblicani. “Bene, allora vai in America”. E mi spedirono prima a Charleston e poi a Nuova York per istruirmi su come lanciare i missili Terrier dall’incrociatore Garibaldi».
È sposato?
«Da prima de Gesù Cristo. Con Anna. Si chiamerebbe Ludovica, ma le ho cambiato nome. No’ xe belo».
Figli?
«Un mùcio in giro per il mondo. E due qui: Dario, archeologo subacqueo, e Chiara, sposata con un messicano». (Ha perso una giovane figlia in un incidente stradale, ma non ne vuol parlare. Da allora non ha più dormito da solo nel casone: «Di notte penserei a lei»).
Witige, nome strano.
«Era il re degli Ostrogoti. Tentò di conquistare Roma, fu assediato a Ravenna e catturato. Morì prigioniero dei bizantini a Costantinopoli nel 542. I casùn nacquero durante le invasioni barbariche: gli abitanti si rifugiarono sulle isole per salvarsi dagli Unni di Attila. Da allora i casoni sono rimasti uguali, con la porta rivolta verso Sud e le tamerici piantate attorno per difenderli dalla bora. Ogni sette anni rifacciamo lo strato esterno del tetto di canna palustre».
Quanti sono?
«Più di un centinaio sparsi su 52 isole. Il Comune li affida in concessione di nove anni in nove anni ai nativi del luogo. Un tempo li occupavano 250 famiglie di pescatori».
Qui che cosa si pesca?
«Cefali, anguille, passere, branzini. Poca roba. La Snia Viscosa ci ha imbottiti di veleni. Ora l’hanno chiusa. Troppo tardi».
Perché sul pennone ha issato anche la bandiera argentina?
«Ogni due anni vado nella Terra del Fuoco. Compro un cavallo, una tenda, un sacco a pelo e la giro da solo per qualche mese. Prima di partire faccio un’assicurazione con i Lloyd per l’eventuale rimpatrio della salma. Sono terre maledette. Da marinaio non avevo mai passato Capo Horn, dove gli iceberg squarciano le navi. Da pensionato sì. E ho varcato lo Stretto di Magellano in barca a vela».
Senza incontrarvi la Sionera?
«Quella è capitata a una nave per il trasporto del carbone che tornava dalla Dalmazia. Lampi, tuoni, cielo di piombo. Tutti rintanati sottocoperta, sbatacchiati dai marosi. Quando la tempesta cessò, gli uomini udirono alcuni colpi secchi, come se qualcuno bussasse per entrare. Nessuno aveva il coraggio di aprire il boccaporto. Alla fine un bambino che era a bordo mise fuori la testolina e vide un vitello sul ponte dell’imbarcazione. Entrarono in porto a Grado e fecero una gran festa. Non s’è mai capito da dove fosse venuto il bovino».
Ha avuto spesso paura in mare?
«Da trovarse co’ le braghe piene? Un mùcio de volte! Nell’ultimo viaggio in Cile le onde hanno spostato il carico e la nave che mi portava nell’arcipelago della Cordigliera di Darwin s’è inclinata. Che poi ’sto Darwin cercava miniere a cielo aperto, non pititti, uccelli come li chiamate voi. Tutta la notte nella stiva ad aiutare i marinai, con i piedi nell’acqua gelida. Fuori solo orche, balene e la luna piena. Alla fine il comandante del cargo mi ha abbuonato i 300 dollari del passaggio. Allora ho offerto una cena all’equipaggio. Ci siamo mangiati una granseola che pesava quasi cinque chili».
Chi è l’ospite più simpatico che ha ricevuto al casone?
«Romiti. Cercava l’attaccapanni. Ecco qua, gli ho detto, mettendogli in mano un martello e un chiodo. Finito di piantare in qualche modo il piolo di fortuna, ha esclamato: “Le ho fatto un danno che se l’avessi fatto alla Fiat m’avrebbero licenziato!”. Conosceva le canzoni sporche di mezza Italia: “Ha fatto più battaglie la tua sottana / di tutta la marina americana, / e porto uno, la bucaiola”. Anche Ranieri di Monaco era simpaticissimo».
Racconti.
«Venne qui con l’oceanografo Jacques-Yves Cousteau. Appena sbarcato mi chiese dove fosse il gabinetto. Gli indicai la turca e gli urlai: “Altezza, si abbassi!”. Niente, diede una capocciata alle canne con l’augusta fronte. Uscendo, si chiuse la patta e mi disse: “Witige, vieni qua. Ma che nome ti hanno dato?”. Sarà belo el tuo. Mi mise un braccio sulle spalle: “Devo chiederti un favore. Io adesso dirò alcune cose ai miei ospiti. Tu fa sempre finta che sia tutto vero”. E poco dopo si mise a raccontare che eravamo vecchi amici, che ci davamo del tu da anni, che giocavamo a carte insieme».
Qualcuno le ha mai chiesto di fermarsi sull’isola di Biviacqua?
«Sì, uno scaveiòn che no’ g’avevo mai visto prima: “Senta, vorrei restare qualche giorno”. Ma tu cu t’u son? “Sono Vasco Rossi”. Mai sentìo ’sto nome. “Come mai sentito? Sono un cantante”. Ah mi no’ so. Qua no’ xe luce, no’ xe radio, no’ xe television, no’ xe telefoni né grandi né picoli».
Perché su Internet esce il suo nome associato al film Stella di mare?
«Un regista austriaco mi ha voluto come attore. Trama semplice: una signorina s’innamora di un pescatore e vissero tutti felici e contenti. Mi fasevo el pescador desgrassià. Me g’ha dato un mùcio de soldi».
Ecco perché ama tanto l’Austria.
«No, caro, la amo perché quando nel 1900 il barone Leonhard Bianchi, che era il progettista dell’imperatore, iniziò la costruzione delle cinque ville di Grado, vigeva l’obbligo di una superficie minima di verde per ciascun edificio. Adesso invece mettono giù solo mattoni e cemento».
Ma lei vorrebbe la secessione?
«Ho fotografato cristiani e musulmani, eremiti e zingari, da Bania Luka alla Macedonia, e ho girato il mondo. Siamo tutti uguali. Stessi dolori e stesse gioie.

Bisogna prendere esempio dall’ex Jugoslavia: avevano Tito, la repubblica, il passaporto, il lavoro. Si sono messi in guerra fra loro. E guarda oggi: non hanno più niente».
(467. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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