LA RECENSIONE - Varg Veum, il lupo buono che indaga nel profondo Nord

Arriva in Italia il detective del norvegese Gunnar Staalesen. È un tipo deciso ma non freddo, nonostante lavori tra i fiordi ghiacciati. In «Satelliti della morte» (Iperborea) è alle prese con un ragazzo sfortunato. O colpevole?

Tempo da lupi. Tempo da Varg Veum. Dovete infatti sapere (chi scrive l'ha scoperto due minuti fa - la fonte è il sito www.cancellidiasgard.net, dedicato alla tradizione nordica) che in norreno, la lingua parlata in Scandinavia fra VIII e XI secolo, il «fuorilegge» era chiamato, appunto «varg í véum», cioè «lupo (nel senso di ladro) nello spazio sacro».
Ora, che il norvegese Gunnar Staalesen, nato nel 1947 a Bergen, abbia battezzato il suo eroe, e ormai quasi alter-ego, proprio Varg Veum, dovrebbe sorprendere, visto che non di un fuorilegge si tratta ma, al contrario, di un detective. E un poliziotto «fuorilegge» non è proprio il massimo, per il cosiddetto ordine pubblico.
Del resto, anche la Norvegia che Staalesen descrive è ben lontana dalla società paradisiaca che noi europei meridionali siamo abituati a immaginare; da quelle parti il welfare fa cilecca spesso e anche volentieri. Così a un lupo solitario come Varg (che però non disdegna di mettersi a cuccia con qualche bella lupa di passaggio...), i «casi» da azzannare non mancano.
Il primo a essere tradotto in italiano è «Satelliti della morte» (Iperborea, pagg. 379, euro 16,50, traduzione e nota finale di Maria Valeria D'Avino - il libro inaugura la collana di gialli «Ombre»), in realtà il penultimo uscito dal computer di Staalesen. I «satelliti» del titolo sono le persone che ruotano intorno alla vita di Janegutt, cioè Jan Egil, un sole decisamente oscuro. Sono quattro gli anni che scandiscono le vicende: c'è un «oggi», il 1995, e ci sono tre «ieri», il '70, il '74 e l'84. Nel '70 Jan Egil è un frugoletto di circa tre anni in balìa di una madre tossica e di un facente (malissimo) funzioni di padre; nel '74 è un bambino adottato da una coppia instabile; nell'84 è un ragazzo che ha cambiato ancora famiglia. Intorno a lui è sempre la Morte a farla da padrona.
Tutta colpa sua? È davvero lui il responsabile di quei disastri? Se lo chiede Varg, inizialmente in qualità di assistente sociale, poi indossando i panni, molto più pesanti, di investigatore. D'accordo, Bergen non ha l'aura di mistero di Londra, né il carattere maledettista di Los Angeles, e i fiordi non sono scenari comodi dove collocare le trame occulte della delinquenza organizzata. Ma la precisione (questa sì molto nordica) del meccanismo architettato da Staalesen sommata alla pervicacia del nostro eroe, coadiuvato da un paio di signore niente male, funzionano benissimo.
Alcuni hanno voluto accostare questo lupo del Nord al californiano Philip Marlowe di Raymond Chandler. Non ci convincono, per due motivi. Primo: il cinismo marlowiano è estraneo al modo di pensare e di agire di Varg. Secondo: fra i due il più freddo non è certo il norvegese. In comune, piuttosto, i due hanno la «seconda vita» sul grande e sul piccolo schermo.

Ma se il Robert Mitchum con occhio e sigaretta penduli lo conosciamo tutti, la faccia da dongiovanni di Trond Espen Seim (una specie di incrocio fra David Beckham e Russel Crowe, sia detto per il pubblico femminile) non ci dice molto. Per ora.

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