Il regime birmano minaccia: «Pronti a passare all’azione»

Le manifestazioni contro il regime militare birmano, giunte alla settima giornata consecutiva, si estendono costantemente e i generali hanno deciso di cambiare metodo: cominciano le minacce, per ora solo verbali. Il ministro per la Religione Thura Myint Maung si è rivolto ai monaci buddisti, vera anima della più estesa sollevazione popolare degli ultimi vent’anni in Birmania (che la giunta militare ha ribattezzato Myanmar), avvertendoli che il governo è pronto a «passare all’azione» contro di loro e «consigliando» i religiosi di non infrangere «le norme e i regolamenti» del buddismo.
Si tratta di avvertimenti quanto mai sinistri, se si considera che nel 1988 la violenta repressione dell’ultimo tentativo organizzato di chiedere il ritorno delle libertà democratiche ebbe secondo fonti giornalistiche un bilancio di tremila morti. Da allora il controllo dei militari sulla società si è fatto ancor più serrato, contando sui servigi di innumerevoli spie che hanno creato un clima di costante paura e di rabbia repressa.
Il generale Maung ha addossato a «elementi distruttivi» contrari alla pace in Birmania la responsabilità del dilagare delle proteste: un apparente tentativo di dividere i monaci buddisti tra «buoni» e «cattivi». Erano stati alcuni di questi religiosi, tenuti in grandissima considerazione in Birmania, a chiedere nei giorni scorsi che l’intero Paese li sostenesse nella loro campagna per abbattere il regime. Sembra però ormai troppo tardi per fermare il meccanismo che si è messo in moto, a meno che i generali non decidano per una soluzione alla Tienanmen, con l’uso indiscriminato della violenza contro i manifestanti.
Ma rispetto alla situazione della Cina nella primavera del 1989 ci sono alcune differenze. Anzitutto le marce contro il regime interessano ormai almeno 25 città. E poi il ruolo coraggiosamente scelto dai religiosi buddisti costituisce un ostacolo di prima grandezza all’impiego della forza: proprio il timore di scatenare la collera del popolo ha fin qui trattenuto i generali dall’usare la forza contro i monaci.
Ora però in Birmania si sta rapidamente arrivando al momento della verità. Con folle stimate in 50-100mila persone che sfilano ogni giorno nelle strade di Yangon, la principale città del Paese, guidate da colorate file di monaci applauditissimi lunghe anche un chilometro, con esponenti del partito di opposizione Nld (quello della leader prigioniera Aung San Suu Kyi) che ostentatamente applicano ai loro vestiti pezzetti di stoffa presi dalle tuniche dei bonzi per poi marciare al loro fianco, le opzioni dei generali si restringono.

I birmani cominciano a credere di poter riuscire a recuperare la libertà perduta 45 anni fa e a chi gliel’ha tolta, se le minacce non sortiranno effetto, non resterà che la scelta tra la violenza e la resa. Onu, Paesi europei e - per diverse ragioni - la Cina premono perché violenza non sia. Bush annuncerà oggi l’indurimento delle sanzioni contro Myanmar. Ma molti temono il peggio.

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