«Il regime? Lo si combatte anche da dj»

Wladimir Kaminer nel ’90 lasciò la Russia chiedendo «asilo umanitario» a Berlino: 96 rubli non gli bastavano per raggiungere la Francia o l’Italia. Oggi non rinnega la scelta. E spiega come si sopravvive al tramonto del comunismo

Ci sono tre modi per guardare alla vita: quello dell’ottimista, quello del pessimista e quello di Wladimir Kaminer, l’ebreo russo noto sulla scena culturale tedesca (berlinese, in specie) come scrittore e organizzatore di eventi pop-underground, il quale ha pochi giorni fa offerto, al Goethe Institut di Roma, una delle sue spassose letture sceniche.
Quasi sosia di George Clooney (stessi occhi liquidi tra nero e marrone, stessa bocca ben disegnata), l’artista ha appreso nella culla (è nato a Mosca nel 1967) a ridere e non a piangere sui drammi della vita («il mondo è così com’è: si deve imparare ad amarlo e ad accettarlo, altrimenti, non vale la pena di vivere amareggiati», consiglia). A Berlino si è arricchito narrando la storia. Cioè, la sua personale storia di emigrato («però, non me ne fotte niente di fare il russo-modello!», avverte), che a vent’anni lascia l’ex Unione Sovietica con novantasei rubli, una matrioska e una bottiglia di vodka nel tascapane, destinazione Berlino est, dove il Muro sta per crollare.
«Nell’estate del ’90 - ha scritto nel libro autobiografico Russendisko (Guanda) - a Mosca dicevano che Honecker avrebbe aperto le frontiere agli ebrei dell’Unione Sovietica, per compensare il fatto che la Rdt non aveva partecipato agli indennizzi tedeschi, a favore di Israele. Tra l’altro, la propaganda della Germania est sosteneva che tutti gli ex nazisti vivevano nella Germania Ovest. A far circolare la voce erano stati i numerosi commercianti all’ingrosso russi, che ogni settimana facevano la spola tra Mosca e Berlino ovest. E la voce s’era diffusa in fretta: lo sapevano tutti (tranne Honecker, probabilmente)».
E se gli italiani hanno «scoperto» i terrificanti sistemi di controllo della Stasi, la polizia segreta di Stato agli ordini, nell’ex Germania est, del dittatore comunista Erich Honecker grazie a La vita degli altri, film (premio Oscar) d’esordio di Florian Henckel von Donnersmarck, splendidamente interpretato da Ulrich Mühe (spiato, nella vita vera, dalla moglie informatrice della Stasi), un’altra voce arriva da quel mondo. Un mondo in frantumi, i cui pezzi, tuttavia, rotolano giù da noi, testimoniando l’eterno ritorno dei soprusi antidemocratici, ma anche la possibilità di denunciarli, facendo il dj, magari. O lanciando la moda delle letture di scena, ora in voga a Berlino, dove giovani e no, nel weekend si sfogano leggendo, per cinque minuti, un proprio testo originale, relativo a un fatto di cronaca della settimana, che li ha colpiti. Entrano in un pub, pagano cinque euro e hanno diritto a una birra e alla libera lettura. È qualcosa di così popolare e anticonformista che si stenta a credere possa essere nata, tra quella Mosca e quella Ost Berlin oppresse dal regime comunista. Ma i fiori nascono dal letame, si sa. E Kaminer, drammaturgo, regista, attore, figlio di un’insegnante e di un oste, è qui proprio per ricordarcelo a chiare lettere.
Caro Wladimir Kaminer, che cosa l’ha spinta, nel 1990, a chiedere «asilo umanitario» proprio a Berlino, all’epoca ancora capitale della Ddr, tutt’altro che libera e bella?
«Mah, era la città europea più vicina a Mosca. Poi, tra l’Unione Sovietica e la Germania est c’era libera circolazione, quindi non ebbi bisogno di richiedere visti, o autorizzazioni. Né disponevo di soldi e pazienza per raggiungere la Francia o l’Italia. Poi, crollato il Muro, Berlino s’è trasformata in un laboratorio interessante: tutto ribolliva, i ragazzi arrivavano da ogni parte del mondo, per immergersi in quel clima euforico e alternativo».
Ha successo e danaro, abita nel quartiere modaiolo di Prenzlauer Berg, con moglie e figli, scrive sulla Frankfurter Allgemeine, cura una rubrica radiofonica per Radio Multikulti, viaggia in tutto il mondo. Si sente integrato nella società tedesca?
«Il dibattito sull’integrazione non m’attrae: ormai c’è, ovunque, un tale mish-mash di gente e di gruppi d’interesse... Non parlerei d’integrazione, mentre la persone non si catalogano più con gli schemi nazionali, o religiosi. Preferisco parlare di società tollerante, dove ognuno vive a fianco dell’altro, nella più completa indifferenza. Stare insieme, ma distaccati: è questo che mi piace, ovunque sia».
Le sue serate Russendisko, discoteca russa, sono eventi musicali di culto, in Germania. Fa ridere il suo «Tutti in pista per l’anniversario della Grande Rivoluzione d’ottobre». Qual è la sua ricetta per divertire con le tragedie?
«Vivo nell’illusione di poter aiutare i miei figli con le mie esperienze di vita, ma loro se ne fregano. E trovo già questa tragedia molto divertente: occorre scavarsi il lato comico di quel tragico fenomeno che è l’esistenza».
Più un popolo viene represso, più ad alta voce canta la sua gente. È vero?
«Da esperto dj, dico sì; la musica non si crea dalla gioia di vivere, ma dalla resistenza all’oppressione.

Credo di raggiungere la gente con la mia sincerità radicale. Niente è più diretto e vero che stare di fronte al pubblico e parlare: che sia critica al comunismo o all’inquinamento, basta parlarne dal punto di vista umano, non ideologico».

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