Ha scritto Paesaggi sublimi ma anche Geometria delle passioni e Destini personali, oltre a molti altri saggi su follia, psicanalisi, politica, felicità e desiderio: Remo Bodei è uno dei maggiori filosofi italiani e ha insegnato a lungo alla Normale di Pisa, prima di approdare - via Cambridge, New York, Ottawa, Città del Messico - all’Università di Los Angeles. Domenica sarà al Festival LetterAltura a filosofar di paesaggi, non solo dell’anima.
«Occorre, ci dice Bodei, distinguere tra paesaggi ameni e paesaggi sublimi. I primi sono quelli che rivelano la presenza dell’uomo nella natura, una natura dolce, verace, che dà frutti ed è fatta di vigne, boschetti, campi, dove ci si intrattiene amabilmente. Nel Fedro di Platone, per esempio, si fa filosofia sdraiati sotto un platano, e il nostro Rinascimento è pieno di “selve odorose”».
I paesaggi sublimi, invece?
«Per molto tempo l’uomo li ha evitati, oppure li ha attraversati con preoccupazione, solo per motivi militari o di commercio. Sono i deserti, gli oceani e certo la montagna. Questi luoghi “orridi” cominciano a diventare “sublimi” nel Settecento. Li si investe di una bellezza conturbante, fatta di terrore e di piacere: terrore perché permane in essi la minaccia del pericolo e della morte, piacere poiché vi si può vivere l’attrazione per l’infinito, il desiderio di perdersi, l’anelito a Dio».
Perché proprio dal Settecento?
«Le darò una data ancora più precisa, il 1711, anno in cui Addison sullo Spectator fa l’elogio dei deserti, e a ruota Shaftesbury dichiara di preferire luoghi di questo tipo alla bellezza ordinata dei giardini all’italiana. Come sorge una teodicea per giustificare il male nel mondo, potremmo dire sorge una “fisiodicea” per giustificare la natura di aver creato luoghi brutti, in realtà sublimi».
Infine brutti o infine sublimi?
«Non va messa così. Con Kant e con Burke si verifica questa contrapposizione: il bello - cioè il grazioso, il femmineo, il piacevole anche sessuale - si oppone al sublime, cioè al virile, a ciò che non ha carattere mondano e che possiamo definire come opposizione dell’uomo verso ciò che può distruggerlo. Burke diceva che il sublime non sta nel paesaggio ma dentro di noi, come la legge morale per Kant. Ecco che il sublime ha una connotazione etica».
La montagna è più “etica” di altri luoghi?
«La montagna, con il suo carattere di elevazione, ha sempre rappresentato l’avvicinarsi a Dio. Wordsworth diceva che la montagna era un “tempio all’aperto”. Così anche Byron nel Manfred. Thomas Mann vide nelle alture un “mondo separato”, come contrapposto a quello “banale” della pianura. Un mondo che “raffina” e crea spiriti nobili».
Non potrebbe valere anche per il mare?
«Diciamo che il mare è legato all’incertezza, al naufragio, gli manca quell’elemento di elevazione tipico dei monti. È più legato all’avventura vagabonda o all’ossessione, come quella del capitano Achab in Moby Dick. Sovente il mare ha rappresentato il demoniaco, non il divino. C’è nel mare un’idea di dissipazione, mentre, da Petrarca in poi, la montagna è legata all’ascesa, anche spirituale».
Ascesa è anche ascesi, lavoro...
«È curioso notare come nel 1796 il giovane Hegel in viaggio sulle Alpi, mentre i suoi precettori erano estasiati dal paesaggio, si concentrasse sui montanari che dai fiori producevano il liquore genepy. Forse l’idea hegeliana dell’“astuzia della ragione” è nata in montagna, guardando come il lavoro umano introduce una finalità dove prima non c’era, persino nei fiori». TC
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