«Troppa luce», dice Claudio Baglioni dopo le presentazioni e comincia a regolare i faretti che illuminano il suo studio. Abbassa, rialza, abbassa di nuovo e alla fine spegne la luce. «Così va bene se a te va bene», dichiara. Dico di sì e restiamo nella penombra del primo pomeriggio che sale dal giardino fitto di piante al centro di un quartiere tra i più quieti ed eleganti di Roma.
Capirò nel corso dell’intervista che l’atmosfera rispecchia il personaggio. Baglioni è un tipo sfumato, amante più dei chiaroscuri che degli eccessi, critica con garbo, si infervora con pudore. Considera la vita un bicchiere riempito a metà, ma tende a vederlo mezzo pieno. E poiché ama l’armonia e un giornalista sconosciuto potrebbe rivelarsi peggiore di un marchigiano alla porta, gli dà subito un tu cordiale e lo festeggia come se avesse aspettato l’incontro dalla nascita. Rifiuto nell’ordine, un caffè, diversi tipi di acqua minerale, altrettante bibite. Allora si allontana - e qui approfitto per descriverlo: 1,85 e passa, capelli color lana con ciuffetti tirabaci, maglietta da canoista, jeans stinti, scarpe da tennis superaccessoriate, gesti misurati - e torna con il suo ultimo romanzo Q.P.G.A., iniziali di Questo piccolo grande amore (la sua canzone più celebre), annota una dedica da dedicatore consumato e me lo porge. Uscito in marzo, ha già venduto 70mila copie. Ho iniziato a leggerlo e mi piace. Frasi brevi, qualche metafora, psicologismi da esperto in cose d’amore.
«Hai scritto tanta musica, ma resti quello di QPGA», dico e azzardo un parallelo con Manzoni ricordato quasi solo per I promessi sposi.
«Destino di quanti fanno qualcosa che resta nella memoria, ovviamente senza paragonarmi. Con l’eccessivo successo si ha però un rapporto curioso».
«Cioè?».
«Cerchi di ignorarlo e cambiarlo per attirare l’attenzione sulle altre cose che fai. È come se avessi una donna che guardano troppo: sei tentato di imbruttirla».
«L’hai fatto con QPGA?».
«L’ho escluso spesso dalle tournée e se l’ho cantato gli ho imposto ogni genere di metamorfosi. Una volta, a Palermo, avevo cambiato suoni, invertito strofe, ecc. È arrivata una ragazza arrabbiata dicendo che non mi dovevo permettere perché la canzone non era più mia, ma degli altri».
«Quando nel ’72 uscì QPGA avevi 21 anni. Differenze tra il Claudio di allora e il cinquantottenne di oggi?».
«Intanto, mi sono speso il bonus: ho 37 anni di tempo in meno. Quindi ho fretta. Però sono più meticoloso. Allora, potevo scrivere dieci canzoni al giorno. Oggi, metto a volte un mese per dieci righe. Trovare nuove strade, per chi ne ha battute tante, impegna».
«Resti molto legato a quella stagione. In febbraio è uscito il film QPGA, in marzo il libro, il 12 giugno cominci a Roma il tour QPGA, in più il disco QPGA. Un tormentone».
«La musica leggera è una macchina del tempo che ti fa tornare in un’altra epoca. Ma questo revival di QPGA, che nasceva come un remake, sarà un’opera nuova».
«I tuoi fan hanno eletto QPGA la canzone del ’900. Qual è la vera?».
«Yesterday dei Beatles, semplice e colta».
«La situazione ideale per godere le tue canzoni d’amore giovanile?», chiedo bizzarramente.
«L’estate, all’imbrunire (ecco di nuovo la penombra, ndr), sul bagnasciuga, con l’infinito in fondo. Ma la musica va anche ascoltata con attenzione. Se no, è tempo perso».
«Sei di origini umbre. I Baglioni furono signori medievali di Perugia. Parente?».
«Feci fare una ricerca araldica. Fu scovata qualche ascendenza. Poi ho smesso. Mi sembrava inutile».
«Papà sottufficiale dei Cc, mamma sarta. Decorosa modestia?».
«Lasciarono la campagna e si sposarono a Roma dove sono nato. Figlio unico ho sempre abitato nella periferia Est: Montesacro, Centocelle, Prenestino. Volevo fare lo Scientifico ma nel quartiere non c’era. Sono diventato geometra».
«A 53 anni hai ripreso l’università laureandoti architetto».
«Sapessi l’imbarazzo, già famoso, tra tutti quei ragazzi! La prima volta mi sono messo due occhiali l’uno sopra l’altro. Ma volevo riscattarmi: geometra non era abbastanza chic», ride.
«Oggi sarai uno snob, bella casa, servitù, macchine».
«Le auto, dopo un incidente nel ’90, non le guido più e non mi interessano. Però abito ai Parioli di fronte ad Architettura».
«Bella zona. Ci avrei giurato».
«Ti racconto perché. Da piccolo, mia zia era domestica ai Parioli. La domenica quando i padroni di casa erano fuori ci invitava a fare il giro della casa. Mi impressionò la fuga di stanze. Col tempo, ci sono arrivato anch’io», dice svelando la vecchia ansia di riscatto sociale con la sicurezza di chi è arrivato. «È stato come superare l’asticella del salto in alto», aggiunge.
Due matrimoni, un figlio. Bilancio come marito e padre?
«Il secondo non è un matrimonio ma una felice convivenza. Il matrimonio fu un amore giovane, bello finché lo è stato e c’è tuttora grande affetto. Come padre è stato più complicato. Il figlio l’ho sentito più da grande che da piccolo. Lui ha fatto la mia stessa scelta cominciando una sua strada come strumentista. Abbiamo un involucro comune e un rapporto intenso e bellissimo».
Sei belloccio. Sciupafemmine?
«Mai stato molto bello e sono tuttora timido nonostante il mestiere e l’età. Affronto migliaia di persone ma da solo con una donna vado in frantumi. Ho debuttato in un’orchestra rock proprio per rimorchiare. Da solo sarei stato incapace».
La tua prima volta?
«Mi sembrò di essere stato violentato tanto ero intimidito dall’universo femminile. Ho parlato d’amore nelle canzoni proprio perché lo conoscevo poco».
Hai l’angoscia del tempo che passa.
«È l’unico avversario. Le malattie si combattono. Il tempo è inesorabile».
Hai sofferto di depressioni.
«Ho una malinconia innata. Le musichette notturne di fine trasmissione di radio e tv, mi facevano piangere. Mi deprimo quando perdo le persone e quando devo guardare dentro me stesso per scrivere con sincerità».
La tua musica serena ha irritato molti critici.
«Non la musica, ma la mia posizione politica. A scuola quando gli altri seguivano i cortei, io cercavo risposte più che slogan. Facevo il mediatore ed ero visto come nemico sia a destra sia a sinistra».
Perché?
«Come si diceva allora, non ero organico al movimento. In Italia la logica dell’appartenenza è claustrofobica. Ci ho sofferto. Ho avuto la tentazione di travestirmi con l’eskimo o il giaccone di pecora. Ma avrebbero subito sgamato che non ci credevo».
A ostacolarti è stata sempre la sinistra.
«L’intellettualità di sinistra ha fatto tanti errori. Un artista non può essere un soldato militante».
Tanto più che il militare non l’hai fatto. A che santo ti sei rivolto?
«Avevo già prodotto due dischi di successo e volevo evitarlo. Ho cercato raccomandazioni, mi fingevo zoppo, ecc. ma non c’è stato verso. Mancava solo il vaglio dell’ufficiale oculista che osservò: “Guardi strano”. “Ho le lenti a contatto”, e me le sono tolte. Non vedevo nulla. Così, sono stato riformato. I commilitoni mi accolsero con una selva di buuu credendo che l’avessi sfangata perché ero famoso».
Cosa sei politicamente?
«Da ragazzino ero più di sinistra. Mai comunista. Ho votato Pri, per qualche anno sono stato craxiano. Ora è difficilissimo. Voto, ma con fatica».
L’ultimo voto a chi lo hai dato?
«Al Pd. Mi sembrava un partito non marxista e riformatore».
Sei veltroniano?
«Walter lo conosco da quando aveva 16 anni e già guidava le dimostrazioni col megafono. Non so se sia un grande amministratore, ma è un buon politico. Incomprensibile però il modo in cui ha lasciato il Pd. Abbiamo perso uno che poteva fare».
Il Cav?
«Molto capace, cortese, non snob. Poteva essere un grande politico come è stato grande imprenditore. Ma avendo vinto la sinistra, non gli è perdonato. Oggi è un problema per tutti perché o è troppo criticato o troppo apprezzato».
Fini?
«È preparato e ha il coraggio di posizioni non popolari. Ha il futuro dalla sua».
Di Pietro?
«Più un tribuno che un politico».
Sei credente?
«Da ragazzino di borgata ho vissuto all’oratorio. Il primo argine per chi poteva delinquere. A 15 anni pensavo di farmi frate. Poi, fuggii da quell’atmosfera di penitenza, paramenti viola, venerdì santi. Ora mi è tornato più forte il senso della religiosità».
Sei impegnato in iniziative per gli immigrati.
«Vorrei evitare lo scontro e facilitare l’incontro».
I respingimenti?
«Talvolta sono migliori le pratiche delle parole. Chiamiamoli accompagnamenti».
Gli accompagnamenti?
«Legittimi e corretti. Bisogna mettere un punto e a capo. Ma non deve diventare compiacimento. Necessario è colpire tutta la filiera dell’illegalità. Abbiamo 500mila irregolari che lavorano in nero. Tanti italiani sono coinvolti. Va fatta pulizia con tutti».
Ti conservi benone. A quando il primo ritocchino?
«Ormai, credo di non farlo più.
Ti lascerai incanutire serenamente.
«Ho ricevuto molti complimenti quando mi sono venuti i capelli grigi. Così ho capito la mia strada: farò il maturo piacente».
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