Nelle reazioni della gente comune agli attentati di Londra m'è parso di cogliere una nota interessante, anche se difficile da definire. Non resa al terrorismo, o rinuncia a combatterlo, e nemmeno rassegnazione sgomenta. Ma piuttosto la consapevolezza, e l'accettazione, della sua presenza nel mondo d'oggi. Una presenza tremenda ma da catalogare tra le insidie con cui dobbiamo misurarci. Mentre i politici con voce forte e a volte stentorea ripetevano i loro «no pasaràn», gli uomini e le donne interrogati - in Inghilterra come in Italia o altrove - in una stazione della metropolitana o ad una fermata d'autobus, si limitavano a osservare che la vita continua, deve continuare. Andavano al lavoro. Alcuni confessavano d'avere paura, ma aggiungevano che sarebbe stato stupido e vile farsene paralizzare. Risulta che sono state limitate anche le cancellazioni di viaggi per l'Inghilterra. E le Borse, che rappresentano l'universo finanziario e non la massa, ma che restano un buon termometro dei sentimenti collettivi, hanno avuto un breve sbandamento e poi si sono subito riprese, archiviando la nuova grande tragedia.
Sarebbe irresponsabile minimizzare la gravità della minaccia islamica che incombe su tanti Paesi: inclusa l'Italia che è esposta al pari di altri e più di altri. Ma personalmente apprezzo più il «tiremm innanz» saggio e coraggioso dei signori e signore nessuno d'Europa che non certi catastrofici annunci, corredati dal rituale scontro di civiltà. Non è pensabile di seppellire con una risata gli stragisti che operano nel nome di Allah, anche se il barbone di Osama Bin Laden si presta alla parodia. Di troppo sangue è intrisa quella barba. Ma è possibile dissolvere l'aureola di magica infallibilità devastatrice che avvolge le imprese di Al Qaida opponendo ad esse la semplicità prosaica del «business as usual». Credo proprio che i Brambilla e gli Esposito d'Italia abbiano catalogato il terrorismo tra le incognite di cui è disseminata la nostra esistenza. Hanno ben chiaro in testa che ogni week-end estivo provoca decine di morti, ma non per questo rinunciano a mettersi in viaggio.
Gli individui hanno la memoria corta, ma la memoria collettiva dei popoli è lunga. I popoli d'Europa sanno che fino alla seconda guerra mondiale ogni adulto maschio del continente - tranne i raccomandatissimi imboscati - doveva mettere in conto la partecipazione ad almeno una guerra: e ogni donna doveva mettere in conto le sofferenze e i lutti che dalla guerra derivavano. I caduti si contavano a milioni. Eppure la vita continuava, e anche là dove pareva che fosse stata annientata presto riprendeva. Questo rincorrersi di inutili stragi è finito per l'Europa da oltre mezzo secolo. Ci godiamo il più lungo periodo di pace che il continente abbia mai conosciuto.
Pace inquieta che somiglia ad una subdola guerra, d'accordo. Abbiamo il terrorismo che ci ossessiona, che sconvolge i ritmi di società altamente sofisticate e perciò molto fragili, e che in realtà non sappiamo in qual modo eliminare. La formula della guerra permanente agli «Stati canaglia» mi sembra apocalittica e irrealizzabile, la formula secondo cui la povertà è l'incubatrice del terrorismo e per cancellare il terrorismo bisogna cancellare la povertà mi sembra utopistica, le misure poliziesche servono senza dubbio ma non sono risolutive. Tra gli strumenti di difesa dal terrorismo io pongo proprio il buon senso - se volete il fatalismo - della gente comune: il terrorismo considerato un incerto del percorso terreno di noi tutti, come una malattia o un incidente stradale. Spogliate il terrorismo del suo alone maleficamente suggestivo, e gli avrete già tolto una buona parte della sua efficacia intimidatoria. Sottolineiamone la stupida anche se feroce inutilità, non ingigantiamone la forza.
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