RomaSorride Roberto Maroni. E interpellato nel bel mezzo del Transatlantico da un gruppetto di deputati leghisti glissa fino a un certo punto. Pubblicamente il ministro dell'Interno non ha voluto aprire alcun fronte polemico con Silvio Berlusconi, che da Sharm El Sheikh aveva fatto sapere che sull'immigrazione il Viminale non fa altro che «eseguire quelli che sono gli accordi presi direttamente tra me e Gheddafi». Un modo educato per dire che la politica dei respingimenti non è frutto di una scelta autonoma di Maroni (e quindi della Lega) ma di una politica coordinata e voluta dal premier (e quindi da tutto il governo). Una posizione che però non convince troppo il ministro dell'Interno, che lontano da microfoni e giornalisti regala ai parlamentari del Carroccio una risposta piuttosto eloquente: «I respingimenti? Per correttezza ho chiamato Berlusconi e l'ho avvisato delle mie intenzioni».
Una fotografia, questa, che rende l'idea di quali siano i rapporti all'interno della maggioranza, dove in vista della tornata elettorale di giugno si è ormai ufficialmente aperta quella che tutti definiscono una «leale competizione». Senza troppo rumore e limitandosi al fioretto, dunque, è iniziata - e non poteva essere altrimenti - la partita elettorale. Merito del Pd, certo, che ormai latitante lascia praterie elettorali al centrodestra e costringe Pdl e Lega a giocare anche nello stesso campo. D'altro canto - nonostante su immigrazione e sicurezza i sondaggi siano tutti, anche quelli di Ballarò, per la linea della fermezza - nel centrosinistra solo Piero Fassino e Francesco Rutelli non hanno puntato il dito contro la linea dura. Quando, solo per fare un esempio, la Spagna di Zapatero usa metodi ben più rudi di quelli italiani.
Ma oltre all'assenza dell'opposizione, gioca un ruolo determinante anche la nascita del Pdl e l'avanzata della Lega, che l'ultimo sondaggio nelle mani del Cavaliere (era il 9 maggio) dà tra il 9 e il 10%. Insomma, fa parte del gioco delle parti che il Pdl cerchi di rintuzzare il Carroccio. Anche perché sono mesi che molti dirigenti del Pdl lamentano un eccesso di protagonismo della Lega. Per dirla con le parole del vicepresidente dei deputati Osvaldo Napoli, «ogni volta che approviamo un provvedimento su cui loro si sono spesi sono sempre pronti ad attribuirsene tutto il merito». Dalla sicurezza alle quote latte, passando al federalismo. Insomma, non è una novità che uno zoccolo duro - soprattutto ex An e un folto gruppo di «sudisti» ex Forza Italia - non gradisca l'approccio aggressivo di Bossi e compagni. Come si coglie dalle parole di Ignazio La Russa che parlando del reato di clandestinità auspica che «la corsa con la Lega» finisca presto. «Non c'è alcuna gara di primogenitura», dice. Salvo aggiungere che «per la prima volta fu proposto da An nel 2000».
A via Bellerio, però, rimandano le critiche al mittente perché, spiega il capogruppo alla Camera Roberto Cota, «ci sono temi su cui ci spendiamo da anni e la gente questo lo sa bene». «Ci inseguono sul nostro terreno», chiosa Paolo Grimoldi, deputato e coordinatore del Movimento giovani padani che dopo la nascita del Pdl ha visto crescere le richieste di adesione arrivate da ex di Forza Italia e Circoli della libertà.
E in questa corsa «leale» tra Pdl e Lega un ruolo centrale lo sta giocando anche Gianfranco Fini. Che sempre di più si ritaglia un suo ruolo su materie delicate come etica, sicurezza e immigrazione. Anche ieri, tenendo il profilo istituzionale, il presidente della Camera non ha mancato di invitare tutti a «evitare eccessi propagandistici» in materia di lotta all'immigrazione. Parole che sono state lette in chiave anti-Carroccio, anche se il successivo faccia a faccia tra Bossi e Fini (in programma da tempo, visto che i due si vedono con cadenza mensile) non pare abbia registrato alcuna incomprensione.
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