Il retroscena Vince Bersani, ma vogliono ripescare Marini

RomaMancano due giorni al congresso Pd, convocato per domenica in un albergone aeroportuale di Roma. Un setting periferico e defilato, come del resto periferico e defilato è il ruolo che il principale partito di opposizione sta giocando da mesi sulla scena politica italiana.
Né si può dire che attorno alle assise di domenica ci sia grande suspense: i risultati sono già noti da settimane, lo sfidante Pierluigi Bersani è in testa con più del 55% dei voti; il segretario Dario Franceschini segue col 36,9% e Ignazio Marino si aggiudica quasi l’8%. Il copione prevede la presa d’atto dell’esito della conta tra gli iscritti e i discorsi dei tre candidati segretari, che aprono la campagna per le primarie del 25 ottobre. Stop.
È il clima politico attorno al congresso ad essere cambiato, però, e il Pd reagisce di conseguenza. Lo sconquasso provocato dalla bocciatura del Lodo Alfano lo ha obbligato a mettere per un attimo la sordina alle ostilità interne e a ricompattarsi «per il bene della ditta», come direbbe Bersani. Il primo a dare la linea è stato Massimo D’Alema: niente derive populiste e dipietriste, nessuna richiesta di dimissioni di Berlusconi che servirebbe solo a spingere la maggioranza a far quadrato sul premier, nessuna manifestazione di piazza su parole d’ordine giustizialiste. Il Pd ha bisogno di tempo per riorganizzare le forze e prepararsi alle prossime elezioni: se le politiche anticipate vengono considerate altamente improbabili, tra sei mesi ci saranno comunque le Regionali. E la prospettiva migliore, dal suo punto di vista, è quella di un lenta (molto lenta) agonia del governo e della legislatura, che consenta al principale partito di opposizione di ricostruire una proposta politica credibile.
«Il Pd certo non vuole elezioni anticipate e non sarebbe pronto ora a proporre un’alternativa», dice Nicola Latorre. «La questione che dobbiamo avere chiara è che nei prossimi mesi Berlusconi terrà alta la febbre per trasformarla in un test politico all’ennesima potenza. E quindi noi dobbiamo prepararci, perché la partita sarà durissima».
Ma soprattutto, e su questo tutte le anime Pd sono concordi, lo scontro istituzionale che si è consumato nelle ultime ore tra Berlusconi e Napolitano «ci ha fatto un gran regalo», come nota il veltroniano Giorgio Tonini, «perché ci ha dato uno spazio chiaro nel quale attestarci: né con Di Pietro né con Berlusconi, ma con la Costituzione e con il capo dello Stato. Anzi, sotto le sue ali». Come nota un importante dirigente parlamentare Pd, «con Napolitano, l’unico in Italia che ha un grado di popolarità pari se non superiore a quello di Berlusconi, il Cavaliere ci ha regalato il leader che ci mancava».
Mentre Di Pietro prepara la sua «piazza Navona2» per chiedere la crisi di governo, e lo sfida a «fare finalmente l’opposizione vera», nel Pd cresce la speranza che l’infiammarsi del clima politico renda appetibili primarie che fino a pochi giorni fa si temeva finissero in flop. «A questo punto possono diventare per il nostro elettorato l’occasione di partecipare, di farsi vedere in fila per scegliere l’anti-Berlusconi», dice Enrico Letta. Una partecipazione massiccia potrà giustificare le cifre roboanti che già ci si prepara a lanciare, per non attestarsi troppo sotto i 3 milioni di Walter Veltroni. E se i supporter di Franceschini sperano che «più crescono i votanti, più migliorano le chance di Dario», in casa Bersani sono convinti dell’opposto, e sventolano sondaggi commissionati per dimostrarlo. E dopo le primarie, si profila il grande appeasement evocato ieri da Sergio Chiamparino: «Auspico una ricomposizione sull’esempio di Obama e Clinton».

In mancanza di una Segreteria di Stato da offrire a Franceschini, già circola la voce di un ritorno di Franco Marini (grande elettore dell’attuale segretario) nelle vesti di padre nobile e presidente del partito. Guidato da Bersani.

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