Il ricco galeotto che dava i numeri alla Francia

Inventò e diresse la prima Lotteria nazionale francese. L’iniziativa doveva risollevare le finanze esauste di Luigi XV impegnato nella Guerra dei Sette Anni. Il Nostro la curò in ogni dettaglio, dandole l’impronta che hanno tutt’oggi simili lotterie come le vediamo trasmesse in tv. In una Ruota della Fortuna erano poste 90 palline contrassegnate da un numero progressivo. Un fanciullo con gli occhi bendati ne pescava a caso cinque, dopo che il pubblico aveva fatto le proprie puntate. Si poteva scommettere su tre combinazioni: il numero singolo, pagato 15 volte la posta; l’ambo, pagato 270 volte; il terno, 5.200 volte. La prima estrazione avvenne il 18 aprile del 1758. I numeri fortunati furono: 83, 4, 51, 27, 15. Non è detto che non escano di nuovo. Al lettore decidere se valga l’azzardo.
Il successo del gioco fu enorme, tanto che il Nostro si trasformò in imprenditore del settore. Lo esportò in un paio di altri Paesi con buona riuscita. Quello fu il suo periodo finanziariamente migliore, poiché alle lotterie aveva affiancato altre attività, tra cui la manifattura della seta. Ognuno di questi affari andava a gonfie vele e egli si atteggiava a famoso finanziere europeo. Visse di conseguenza, acquistando poco fuori Parigi, in una zona detta Petite Pologne, una casa di campagna con due giardini, tre appartamenti e una scuderia per 20 cavalli. Le dette nome di «Cracovie en bel Air» e l’abitò tra «scelte brigate e cene squisite», circondato da donne, belle o brutte, tanto era di bocca buona e le amava tutte.
Ogni giorno più in vista, finì anche sotto gli occhi della Corona, intrigata dallo spirito di iniziativa e dall’ottima introduzione nei migliori ambienti dell’eccentrico personaggio. Malgrado non fosse cittadino francese, emissari del re lo arruolarono come informatore. Fu inviato a Dunquerque, sulla Manica, a spiare i movimenti del naviglio inglese. Ne scaturì un’informativa che, per precisione e completezza, fu quanto di meglio ci si potesse aspettare. Anche questa attività contribuì ad aumentare le ricchezze del Cavaliere de Seingalt, nome elegante sotto cui il Nostro aveva occultato il suo grazioso ma banale cognome italiano.
Giunto però all’apice, il Cavaliere si giocò tutto con un paio di operazioni sbagliate e tornò povero in canna. Era questa la sua condizione naturale, vittima del suo gusto per il rischio che lo aveva già gettato nelle prigioni di mezza Europa. Una prima volta a 18 anni nel Forte di Sant’Andrea a Venezia e poi, via via, a Pesaro, a Lione, in Inghilterra, in Spagna. In genere ci finiva per l’esercizio truffaldino della Cabala o avventure d’amore e adulterio. Per analoghe ragioni era stato espulso dalla Toscana, dal Ducato di Modena, dal Piemonte, da Vienna, eccetera.
Senza più un soldo e in declino, accettò il suo primo impiego come bibliotecario dal giovane e spavaldo principe di Waldstein, discendente del grande Wallenstein, eroe asburgico della Guerra dei Trent’anni. Il luogo del suo lavoro fu quello del suo definitivo esilio: il Castello di Dux in Boemia, tra i boschi del Monti Metalliferi. Passò qui gli ultimi 13 anni di vita, litigando con maggiordomi e servitori che facevano ogni sorta di dispetto a quell’uomo famoso diventato un vecchio bisbetico. Si era oltremodo affezionato a una cagnetta che chiamava, alla greca, Mélampige per una natica che aveva nera sul corpo bianco. Una volta che gliela nascosero per procurargli un affanno, restò tre giorni a letto per l’afflizione. In altri tempi, avrebbe reagito ben diversamente. A un tizio che in gioventù gli fece uno scherzo innocente impartì la seguente lezione. Andò al cimitero, tagliò il braccio a un uomo appena morto, tornò dal tizio che si era addormentato e lo svegliò schiaffeggiandolo col moncherino. Il malcapitato non si riebbe più dal terrore, finendo pazzo i suoi giorni.
Alle angherie dei servi di Dux si aggiungevano gli acciacchi dell’età. Ma se il corpo in qualche modo reggeva, i denti gli si staccarono uno dietro l’altro. Caduto l’ultimo, scrisse a un amico veneziano: «Dio mi ha fornito di mobili che durano meno della casa». Nominava Dio, ma senza crederci. Aveva invece grande rispetto della religione. Non solo per essere stato abate nei verdi anni, ma anche perché la considerava baluardo della società. De Seingalt era legato all’Ancien Régime che, bene o male, aveva tollerato i suoi eccessi, e che ora egli vedeva con orrore spazzato via dal moralismo sanguinario della Rivoluzione giacobina.
Di fronte al crollo del suo fisico gigantesco (era alto 1,90) e del suo mondo, non gli restava che consolarsi rievocando la bella età. In tre anni, il bibliotecario di Dux scrisse le sue Memorie. Un rosario di avventure e di amori, di accoppiamenti doppi e tripli, di incesti maturi con le figlie da lui avute in gioventù dalle amanti. Ma con l’accortezza del gentiluomo di non fare mai il nome delle sue 116 donne.

Tutte celate dietro iniziali misteriose che non corrispondono a quelle vere ma a lettere cabalistiche. Una selva di C.C., M.M., X.C.V., delizia interpretativa degli ammiratori che affollano in ogni stagione il cimitero di Dux per rinverdire la memoria del Nostro.
Chi era?

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