Ritmato, divertente, allegro e fresco; «Molto rumore per nulla» di William Shakespeare, per la regia di Gabriele Lavia, in scena al Teatro Carcano da mercoledì 7 fino al 18 ottobre, si accinge a conquistare una platea amante del classico ma, rivisto con uno sguardo di un contemporaneo maturo ed esperto raffinato, avvezzo a rivalutare le essenze dei lavori dei grandi autori, sottolineandone la modernità. È proprio Gabriele Lavia, fondatore della compagnia Lavia-Anagni impegnata sulla scena,a raccontare, con evidenti slanci filosofici, dettati dalla sua profonda conoscenza del logos e dalla sua esperienza attorale, come proprio in Shakespeare si possano trovare linee guida del pensiero dell'uomo moderno; dopo aver affrontato la messinscena dell'«Otello» nel 1975, oggi Lavia torna sulla scrittura del grande drammaturgo.
Shakespeare per parecchi attori è un punto di partenza, un banco di prova attraverso il quale misurare la propria arte. Per lei cosa rappresenta?
«Occorre capire che le punte più alte del pensiero occidentale sono i sistemi di Talete e di Platone: quando si raggiunge un traguardo, automaticamente quello è un punto di partenza e per me Shakespeare rappresenta una tappa del mio percorso artistico. È un autore molto importante per tutta la nostra civiltà ed è inevitabile che un attore ogni tanto ci caschi. Nelle sue opere si è occupato anche dell'essere e non non essere, tematica che appartiene agli abissi dell'uomo e che ha affrontato sapientemente. Un dilemma che ci perseguita: quante volte mia figlia mi ha detto: Papà era meglio se tu non fossi stato attore. Ma io lo sono e il dubbio si instilla. È un bene essere attore o è meglio non esserlo?».
Shakespeare nel tempo non è cambiato. Come lo ha affrontato oggi?
«Mi sono avvicinato alla sua scrittura in modo diverso perché io sono cambiato. Quando ero giovane non mettevo bene a fuoco le problematiche sviscerate dalle sue opere: ora ho una maturità di vita e artistica che mi consente di comprendere meglio i suoi intenti. Soprattutto, sulla scena sono me stesso. Ho deciso di essere attore».
Quindi lei interpreta sempre se stesso?
«Un attore, appunto deve saper riconoscere se stesso e individuare la propria identità; solo così potrà dare vita a personaggi che, in realtà, non ci sono e che parlano con parole morte, senza suono. Io parto sempre da me stesso: i miei protagonisti avranno la mia voce, il mio volto, il mio corpo. Il teatro è arte assoluta e pura e vive perché ha il supporto dell'attore. Nessuno si rende conto che il teatro rappresenta l'arte allo stato puro, è filosofia. Non a caso i Dialoghi di Platone sono opere drammaturgiche. Tutte le esperienza dell'uomo si fondano sul teatro, inteso come luogo dello sguardo dove uno si pone di fronte all'altro».
Il pubblico moderno, invece, come affronta Shakespeare?
«Da quando ho cominciato a fare teatro, il pubblico è molto peggiorato di pari passo con la società. L'uomo è condizionato dalla tv, il suo modo di comportarsi è stato plasmato e rispecchia i modi che si vedono in tv ed è impossibile sottrarsi ad un demone così potente. È tuttavia interessante vedere come ci siano diverse tipologie di pubblico, come ad esempio quello che va a teatro perché ama il gesto di andare ad assistere ad uno spettacolo prescindendo dal titolo e dagli attori. Credo, però, che si debba parlare di teatro quando, ci siano i requisiti giusti: non basta suonare un pianoforte per fare musica, a volte basta fischiettare, purché bene. Così, come possa bastare un grande attore in piedi, in mezzo al palco, in silenzio per fare teatro. L'importante è essere attori».
Lei ha sempre affrontato sia come attore, sia come regista la drammaturgia classica. Disdegna quella contemporanea?
«No, ci sarebbero anche cose che mi piacciono, ma credo che la nostra epoca non sia in grado di dare rappresentazione di se stessa perché sono caduti tutti i valori. Vi è stata una svalutazione dei principi e i moderni non sono in grado di transvalutarli sulla scena. Ci siamo impaludati nel pensiero occidentale dove è sparita la dimensione metafisica. Si dovrebbe trovare la strada per uscire anche se penso sia difficile proprio perché la modernità ha chiuso tutti gli accessi: non sono pessimista, dico solo la verità pur nella convinzione che alla fine un genio riuscirà ad uscire dal tunnel».
In scena, nei panni di Benedetto, ci sarà Lorenzo suo figlio. Cosa consiglia a un ragazzo che vorrebbe intraprendere la carriera di attore come Lorenzo?
«Sono affari suoi. L'importante è trovare i mezzi almeno per comprarsi una casa: io non ci ho mai pensato, ma nella vita ci sono anche questi problemi pratici».
Mi sembra che lei, pur avendo fatto parecchie esperienza cinematografiche, propenda per il teatro.
«Il teatro è la mia vita, lontana dalla quella di tutti i giorni, è metafisica. Il cinema è un'avventura meravigliosa molto più vicina alla quotidianità.
Con Monica Guerritore, sua ex moglie, ha dei rapporti artistici?
«Sì, tra qualche mese lavoreremo assieme a Danza di morte di Strindberg».
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