«Il rigore è un’arma per difendere i ragazzi»

Bernhard Bueb, rettore del collegio tedesco più prestigioso, ha scritto un saggio per celebrare le virtù della severità. Dice: «È necessario essere rigidi per poter educare bene»

«Il rigore è un’arma per difendere i ragazzi»

In un Paese in cui la maleducazione raggiunge ritmi isterici e il bullismo adolescenziale timbra il cartellino alla stazione della monotonia, parlare di disciplina è come mettere il dito negli occhi di un poppante. Bernhard Bueb ha osato in Germania con il suo Elogio della disciplina (Rizzoli), sfoderando un vocabolario dato per pensionato dopo il Sessantotto che, per rifondare i modelli educativi per gli adolescenti, non si vieta di parlare di autorità, disciplina, severità, imposizioni, punizioni, obbedienza. E ha fatto dibattito, eccome, persino tra gli adolescenti che sono l’oggetto di questa requisitoria in fondo diretta agli adulti smidollati, e se n’è parlato molto anche in Italia.
Bueb è così venuto a discutere a Roma, tra gli arazzi severi, i Tintoretto e i ritratti papali del settecentesco Palazzo Colonna. Di fronte, curioso contrappasso, c’è l’ufficio dell’Ulivo, ma stanno sbaraccando. Noi abbiamo avuto la fortuna, incontrando l’autore, di chiacchierare anche con un «testimone-chiave», la figlia Leonie. Insomma: lei dovrebbe essere il byproduct, l’epifenomeno, il prodotto semantico dei metodi e delle teorie di suo padre, che certo non poteva permettersi di fallire in famiglia. Camicetta bianca appena scollata, pantalone nero aderente, un filo di trucco a sottolineare la maggiore età appena conquistata, non ci pare la cavia di un esperimento. Ma lo chiediamo a lei.
Permette un attimo, fraülein Bueb?
«Sì, prego?».
Elogio della disciplina, il librino del suo papà, ha venduto centinaia di migliaia di copie suscitando un vespaio di polemiche... Lei lo ha letto? (ride)
«Sì».
E cosa ne pensa?
(ride a crepapelle) «Non so, io penso...». Pausa. Dobbiamo capire.
Allora, il libro?
«Mi è piaciuto, va bene per i miei coetanei, perché ci sono troppi ragazzi che non ricevono una buona educazione».
Poche ciance, l’atmosfera di Palazzo Colonna è fatta apposta per meditazioni serie. Passi di fronte al ritratto di Martino V e già sei nel grande salone dove staccano imperiosi i ritratti di Marcantonio Colonna, che portò a Lepanto le navi del Papa. Resta giusto un attimo per riflettere sullo scontro di civiltà accompagnati dalla sagacia organizzativa di Gaetano Rebecchini, che con il suo «Centro di orientamento politico», punto di fusione calda tra il cardinalizio e l’aristocratico e il mondano, ha portato a Roma calibri intellettuali del peso di Francis Fukuyama o Jeremy Rifkin.
E questa volta è il turno di Bueb, storico preside del prestigiosissimo collegio di Salem, dove gli alunni si alzano in piedi quando entrano i professori e se si comportano male, tipo se si fanno le canne, scatta il processino interno e l’ipotesi di mandarli di corsa ai lavori manuali. Il paradiso tecnico per i nostalgici del rigorismo. Torniamo a Leonie.
Leonie, ci sveli qualche segreto del professor Bernhard come padre. Avrà un punto debole...
«Be’, è più buono di quanto traspaia dalle pagine del libro. Si è sempre sforzato di spiegarci il “perché si fa” o “non si fa” di ogni cosa. Lui scrive che non bisogna guardare la televisione, ma poi... l’abbiamo sempre vista».
Anche i programmi frivoli?
«Anche».
Lei ascolta il rock?
«Certo, io amo il rock. Perché me lo chiede?».
Perché leggendo Elogio della disciplina sembra che l’unica musica buona per l’elevazione dello spirito dell’adolescente sia quella classica, tanto che Bueb non va per il sottile: se non piace, va «imposta».
E allora lo chiediamo direttamente al professor Bueb. Lo ha spiegato tante volte: il suo libro in realtà è un appello agli adulti perché si assumano la responsabilità di guidare e condurre i propri figli, «ritrovare il coraggio di educare» anche accettando la prova del conflitto. I ragazzi, ha scritto, «hanno diritto alla disciplina», se li lasci vivere alla Pippi Calzelunghe solo in pochi sapranno sopravvivere in quell’atmosfera di «fantasiosa anarchia». Detto da un tedesco fa già scattare un carnevale di luoghi comuni, ma detto da Bueb, che del professore tutto d’un pezzo è una specie di raffigurazione idealtipica, la severità dei termini, dei presupposti e delle conclusioni miracolosamente si stempera nell’umanità del confronto. Accomodati sul rosso porpora di poltrone patrizie, cominciamo.
Professore, le piace il jazz? (Bueb resterà perfettamente immobile durante tutta l’intervista)
«Sì».
E il rock?
«Sì, se di qualità».
Per esempio?
«Non saprei».
Ma come, un educatore dovrebbe conoscere le icone dei suoi ragazzi...
«Non mi chieda troppo».
A questo può rispondere, però: si parla tanto di disciplina nel libro, come norme interiorizzate. Ma come distinguerla da un semplice rispetto formale di norme che non si accettano e che in fondo preparano alla rivolta il bulletto di domani?
«Partiamo da una constatazione: nel XX secolo, a causa dell’infezione totalitaria, abbiamo sofferto dell’imposizione di una disciplina fine a se stessa. La disciplina è un metodo, non un valore. Io parlo di formazione all’autodisciplina, che è una dote interiore ed è il presupposto della formazione di un pensiero critico. E ciò rafforza la regola per cui io devo sempre seguire ciò che mi detta la mia coscienza. Anche l’abuso, come l’assenza di disciplina, è un male da combattere, per cui qualche volta è giusto che io mi debba ribellare. Nell’esercito tedesco esiste un diritto sancito: si può rifiutare di eseguire un ordine se così detta la coscienza. Questo significa praticare una forma alta di autodisciplina».
In Italia si fa tanta retorica sui ragazzi ridotti a «bamboccioni». Non è un rischio anche nel suo modello, quello di trasformare l’adolescente in un soggetto eterodiretto da regole imposte e non scelte?
«Nooo. L’obiettivo dell’educatore deve sempre essere rafforzare nel giovane il senso del valore di sé. Una buona riuscita del metodo della disciplina insegna all’adolescente a eccellere nei campi in cui si impegna».
Come prendono i diretti interessanti, gli studenti-figli, i suoi richiami alla disciplina?
«Quando li incontro nei licei - perché, sa, mi invitano - le critiche che arrivano al libro sono sui particolari, non sulla tesi generale. E mi sono convinto ancora di più che i ragazzi hanno “desiderio” di disciplina, di insegnanti decisi, di genitori amorevolmente autorevoli».
Lei ripete agli studenti, quando la invitano a scoprire che hanno bisogno di professori con il cuore e con le palle, che senza amore la disciplina è una procedura vuota, un atto autoritario senza autorità: ma ogni tanto per amore, anche per sovrabbondanza d’amore, si può anche sbagliare. O no?
«Certo, per amore si sbaglia. Ma i figli, e pure gli studenti, perdonano gli errori fatti per amore, se sanno che sono amati. E lo fanno anche quando gli educatori ammettono di aver sbagliato».
E lei ha mai sbagliato, professor Bueb?
«Non sono stato sempre coerente, e questo è un errore fondamentale. In alcuni casi non sono stato onesto, e mi è costato molto ammetterlo. I miei studenti mi hanno riconosciuto lo sforzo».
Il suo errore più grande?
«Non aver formato bene come avrei dovuto gli insegnanti di Salem».
Domanda di rito. Ci stiamo avvicinando al quarantesimo anniversario del Sessantotto. Elogio alla disciplina è un meticoloso «ribaltamento del ribaltamento»: il Sessantotto ha criticato e destrutturato quei modelli di autorità intergenerazionale che lei vuole riportare al centro della vita collettiva. Ma è tutto da buttare, il Sessantotto? In fondo, prima di essere ingoiato dall’ideologia, è stata una rivolta contro una società ossificata, ancora divisa per ceti, noiosa.
«No, non tutto nel Sessantotto è da buttare. I sessantottini sono stati degli illuministi romantici. Io stesso sono stato uno di loro...».
Professore, è una notizia. (sorride anche lui)
«Mai marxista, però».
Tiriamo un sospiro di sollievo...
«Avevo trent’anni...

I sessantottini, nella loro ansia iconoclasta, hanno buttato a mare troppe cose della vecchia società. In Germania, però, sono stati bravi a ricordare ai tedeschi di usare la propria intelligenza, lottare sempre per la libertà e la democrazia, e seguire la propria coscienza».

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