Come ci si salva, quando ci si ritrova infangati e massacrati dalla creatività in divenire dei «pentiti», dai teoremi delle Procure e dai giornalisti portaborse del Pm?
La vicenda Andreotti insegna qualcosa.
Il senatore viene accusato d’aver contribuito «attivamente e consapevolmente» all’attuazione delle attività e delle finalità di Cosa nostra. Un nugolo di collaboranti - alcuni sono gli stessi del processo a Marcello Dell’Utri - specifica che Andreotti si fece carico delle «necessità della mafia siciliana», specie di «tutte le esigenze di Cosa nostra che comportano decisioni da adottare a Roma». Caselli, Lo Forte, Scarpinato e Natoli traducono il già troppo elegante e sospetto lessico dei mafiosi pentiti nella formula: «Si tratta dunque, intuitivamente, d’interessi multiformi, di tipo amministrativo, economico, finanziario e perfino legislativo, il cui segno unificante era quello di richiedere comunque e necessariamente un intervento politico-istituzionale di vertice».
Sembra un labirinto senza via d’uscita, eppure Andreotti porta lo stesso a casa la pelle, soprattutto perché conserva da sempre il vezzo di tenere puntigliosamente in ordine agende e diari, di talché, alla domanda fatidica «lei dov’era il 22 maggio del 1979 alle ore 11 e 36» è tra i pochi al mondo a poter rispondere per filo e per segno.
I pentiti Mannoia, Siino e Di Maggio l’accusano d’aver in quei tali giorni incontrato i boss Bontade e Santapaola? Nessun problema, uno sguardo alle agende e Andreotti dimostra che, proprio nelle date indicate, lui si trovava in missione all’estero.
I collaboranti, costretti da un grande avvocato, il professor Coppi, ad essere precisi, declinando i confini spazio-temporali, finiscono per scagionare, senza rendersene conto, l’accusato.
Ecco, costringerli alla precisione cronometrica è una delle vie di uscita, anche se, poi, il soccorso rosso di Procura può intervenire e correggere in corso d’opera eventuali corbellerie manifeste degli accusatori.
La regola del gioco è, infatti, dirla grossa, la più grossa possibile, ma in modo tale da non poter essere confutata.
Clamoroso fu il caso di tal Federico Corniglia, il quale racconta d’aver incontrato, negli anni 1970-1971, dal barbiere di nome Torquato, il boss Frank Coppola in piacevole conversare con Andreotti.
Davanti ad una «rivelazione» così vaga, non c’è modo di difendersi. Per fortuna di Andreotti, Corniglia vuole strafare, farsi bello con i Pm, accozzando altri particolari, sino a specificare d’aver personalmente intrattenuto rapporti col coiffeur Torquato, proprio tra il 1970 e il 1971.
È uno stolido autogol, perché Torquato, il barbiere di Andreotti, certificato di morte alla mano, era deceduto il 28 giugno del 1964. Corniglia, quindi, parlò con... un defunto.
Certo, dopo le figuracce della Procura di Palermo nella vicenda Andreotti, è ipotizzabile che i pentiti abbiano ricevuto da allora corsi accelerati per non strafare e risultare più credibili, evitando di circostanziare troppo e di rimanere su narrazioni incisive, colorate, scioccanti, ma generiche al punto giusto da non poter essere facilmente smentite.
Lo stesso Tommaso Buscetta, il grande accusatore di Andreotti, a riprova dell’esistenza della scuola serale per pentiti, nel corso del dibattimento ammette di «essere stato costretto a correggere» certe sue precedenti dichiarazioni contro Andreotti, perché «informato» del fatto che non potevano reggere alla prova spazio-temporale
Andreotti docet, insomma, tuttavia è ben triste dover seguire il suo esempio, appuntandoci ogni dì, ora per ora, dove ci si trova, con chi, come e perché.
Quando un popolo intero si deve preoccupare di tenere sempre pronto l’alibi, allora vuol dire che qualcuno sta attentando alla libertà, alla qualità della vita ed anche alle istituzioni liberaldemocratiche.
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