Il risorgimento? L’ha pagato il Sud in milioni sonanti

Caro Granzotto, ha pubblicato l’ennesima lettera antirisorgimentale, stavolta firmata nientemeno che dal direttore della rivista Due Sicilie, che denuncia «una violenta conquista militare da parte del regno savojardo» degli altri Stati italiani, specie del felice regno dei Borboni. Questa volta la denuncia pecca di genericità. Il lettore, per esempio, dimentica che ci fu una città che con l’Unità perse il suo ruolo di Capitale. Perse la Corte, il Governo, il Parlamento, i Comandi Militari, la Zecca... Questa città è Torino. Non si è mai visto uno stato «conquistatore» che come primo atto sposta la mente e il cuore dello Stato stesso fuori dai suoi confini, nel Paese «conquistato». Non aspettarono neanche la conquista di Roma, ma si inventarono una capitale provvisoria, pur di non lasciarla a Torino. Nel 1864, all’annuncio del trasferimento della Capitale a Firenze, la folla si riversò in piazza a Torino per protestare. La forza pubblica sparò senza preavviso. Ci furono 50 morti e 130 feriti (vada a vedere, caro Granzotto, la targa in piazza San Carlo, sui portici davanti al Caval ’d Brons).
Se vogliamo fare la gara del «chi ci ha perso di più con l’Unità d’Italia», che a quanto pare l’appassiona assai, ebbene, noi Piemontesi siamo in prima fila. Dopo essere stati gli unici a versare il sangue per l’indipendenza dallo straniero e l’Unità d’Italia (altro fatto sempre dimenticato), abbiamo perso il nostro Stato che aveva ottocento anni di storia (cinque volte di più dello Stato italiano) per diventare una regione periferica del nuovo Stato. Torino dopo la perdita della capitale cadde in una grave crisi economica e demografica, da cui si risollevò solo all’alba del nuovo secolo, con la nascente industria metalmeccanica. Ma questa è già un’altra storia. Sono sicuro che lei, sempre così attento al revisionismo storico, vorrà dare spazio anche al revisionismo del revisionismo.
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Su, caro Deva, non mi faccia piangere il nostro presidente Napolitano! Ma come? Anche a voi piemontesi non va giù l’unità d’Italia? La considerate una operazione a perdere? Perdere... ma è poi andata così? Certo, perdeste la capitale, ma siamo sinceri: era una capitalina, la capitalina del piccolo anche se bellicoso Staterello subalpino. Mantenerla come capoluogo di un’Italia (una e indivisibile, mi raccomando) che si proiettava tutta a sud, rinunciando poi al prestigio di piantare le tende nella Roma Caput mundi dopo averle fatte togliere al Papa così appagando la forte vena anticlericale dell’impresa, non era pensabile. Spiace per i torinesi che a Piazza San Carlo ci lasciarono la vita (va però detto che in quanto a sparare sulla folla meglio di Minghetti fece il «feroce monarchico Bava» sedando a cannonate la milanese «Protesta dello stomaco»), ma quello - quello del cambio di capitale, intendo - era il prezzo da pagare per felicemente suggellare l’estensione del Regno di Sardegna sul resto della Penisola. In cambio del sacrificio, il Piemonte si intascò l’intero tesoro del Regno delle due Sicilie, una barca di soldi coi quali furono saldati i debiti contratti per portare a termine l’epopea risorgimentale.

In sostanza, caro Deva, a pagare, soldo sull’unghia, i costi dell’Unità non furono i piemontesi, ma i cafoni, i lazzaroni, i briganti meridionali (non per fare il conto della serva, ma tanto per capirci: subito prima di Teano la moneta circolante nelle Due Sicilie era pari a 443,2 milioni di lire, in pratica oltre il doppio di tutte le altre monete circolanti nella penisola italiana. Il Piemonte, per venire a noi, possedeva solo 20 milioni di lire). Ciò detto, facciamo pace, caro Deva: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto, scurdammoce dunque ’o passato e guardiamo avanti.

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