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Rita Levi Montalcini: "Al lavoro a 65 anni (e oltre)? Si fa così"

La scienziata compirà cento anni fra pochi mesi e ha appena scritto due libri: "Sono più attiva oggi di quando ero giovane. Mi alzo alle cinque e poi vado in laboratorio. Smetto solo alle undici di sera"

Rita Levi Montalcini: 
"Al lavoro a 65 anni 
(e oltre)? Si fa così"

Roma Nell’anno dei 99 ha scritto due libri e ricevuto un paio di lauree. Oltre al lavoro quotidiano in laboratorio e alla Fondazione che porta il suo nome. Il primo secolo è vicinissimo: Rita Levi Montalcini compirà 100 anni il 22 aprile, ma per lei è una data leggera. Non ha tempo da perdere per pensare ai simboli o calcolare l’età: è impegnata tutto il giorno, come quando era giovane. Anzi no, ancora più attiva: «Lavoro di più oggi che quando avevo vent’anni». L’ultimo libro, Le tue antenate (scritto con Giuseppina Tripodi, sua assistente da quarant’anni e appena pubblicato da Gallucci) racconta di donne pioniere: scienziate in epoche in cui la cultura era considerata un patrimonio solo maschile, coraggiose, intraprendenti, geniali. Spesso poco conosciute, perché la storia ha tralasciato i loro nomi e i loro meriti. La loro passione era la stessa di Rita Levi Montalcini: la scienza, a cui lei si dedica ancora oggi con tutta l’anima e col corpo esilissimo.
Ha quasi cento anni. Progetti?
«È l’età giusta per mettersi a lavorare. Lavoro di più oggi che quando avevo vent’anni. So che la fine è vicina, quindi non me ne preoccupo: la morte del corpo non mi interessa, ciò che resta sono i messaggi inviati in vita. Rimane lo spirito».
Il cervello non va in pensione?
«Mai. Però bisogna trovarsi un’alternativa in anticipo, prepararsi dieci o vent’anni prima per un’attività di nostro gradimento».
Si discute di aumentare l’età della pensione per le donne, portandola a 65 anni. Che ne pensa?
«È già un passo avanti, verso la parità. Il meglio sarebbe non andare mai in pensione, ma è un obbligo, perché dobbiamo lasciare posto ai giovani. L’importante è prepararci per tempo».
Come trascorre la sua giornata?
«Mi alzo alle cinque, faccio colazione. Leggo su un video le notizie che mi interessano, soprattutto di argomento scientifico e sociale. Penso, preparo la giornata con i miei collaboratori: un uomo e sei giovani donne e madri, tutte eccezionali. Al mattino vado in laboratorio, all’Istituto europeo per la ricerca sul cervello che ho fondato a Roma; nel pomeriggio sono qui alla Fondazione».
Quando smette di lavorare?
«Verso le undici di sera. Ma dormo poco, al massimo un paio d’ore. In pratica lavoro sempre, giorno e notte».
Come vede il futuro?
«Non sono una futurologa. Ma certo non con pessimismo: se sei pessimista, sei già sconfitto in partenza».
È sempre stata così ottimista?
«L’ottimismo è serenità, coraggio, impegno massimo. Non è sempre giustificato, ma il pessimismo è sicuramente peggio».
Mai stata pessimista in vita sua?
«Mai. Neanche sotto le leggi razziali. Certo non ringrazierò mai Mussolini e Hitler per quello che hanno fatto, ma in quegli stessi anni, nascosta in una camera da letto, ho iniziato la mia scoperta, che poi mi ha portato al Nobel».
Un premio toccato a poche sue colleghe, anche se, come dimostra il suo libro, molte l’avrebbero meritato. Lei è un’eccezione?
«Le donne rappresentano solo il sei per cento degli scienziati che hanno ricevuto il Nobel: una percentuale bassissima. E non perché manchino d’intelligenza. La differenza fra i sessi non è genetica, ma epigenetica, cioè legata all’ambiente: l’uomo è incoraggiato a usare il cervello, la donna è impedita. Le scienziate di cui parlo nel libro ne sono la prova».
Chi sono queste donne?
«Sono quasi tutte nobildonne, le uniche che potessero permettersi un tutore. Molte sono ebree. Sono figure affascinanti: giovani portate per la matematica, la fisica, la chimica e l’astronomia, in periodi in cui queste materie erano considerate un privilegio maschile. Da Ipazia, vissuta nel quarto secolo, fino alle scienziate del Novecento».
La sua preferita?
«Suor Maria Celeste, la figlia di Galileo. Una persona splendida, come traspare dalle 124 lettere che scrisse al padre».
Quali considera dei modelli?
«Marie Curie. E poi la tedesca Emily Noether, che ha fondato l’algebra astratta ed elaborato il teorema di Noether. Era ebrea, riuscì a sfuggire alle persecuzioni naziste emigrando negli Stati Uniti. Morì a soli 53 anni».
Altre grandi pioniere?
«Lady Montagu. Non s’intendeva di medicina, eppure riuscì a diffondere la vaccinazione del vaiolo, salvando moltissime vite. Anche mia cugina, Eugenia Sacerdote de Lustig, ha fatto il vaccino anti poliomielite ai suoi figli e ha convinto il governo argentino a utilizzarlo sulla popolazione. Vive ancora in Sud America, ha 98 anni. Uno meno di me».
Che cosa accomuna queste donne?
«Da bambine erano considerate dei geni, mostravano doti impressionanti in matematica fin da piccole. Ciascuna è un caso a sé, ma il loro contributo fu in gran parte ignorato o, comunque, mai riconosciuto nel suo pieno valore. Come successe alla moglie di Einstein, Mileva Maric».
Quali pregiudizi e ostacoli hanno dovuto affrontare?
«Tutte le loro scoperte sono state attribuite ai mariti, ai padri, ai fratelli. Sono state derubate: per secoli si è creduto che l’intelligenza dell’uomo fosse superiore, soltanto per via della forza fisica. Ma il cervello non c’entra nulla con la forza fisica».
Lei ha incontrato difficoltà?
«No, mai. Sono cresciuta in una famiglia vittoriana, mio padre, ingegnere, dominava dentro e fuori di casa. Ci amava molto, ma avrebbe preferito che noi ragazze non studiassimo. Mi è costato fatica, ma a vent’anni ho chiarito che non avevo nessuna inclinazione per la famiglia e il matrimonio. Gli dissi: “Lasciami fare”».
È vero che a 3 anni aveva già deciso di non sposarsi?
«Verissimo. Sapevo che non sarei mai stata né moglie né madre. Una posizione che ha creato qualche difficoltà in famiglia, ma solo all’inizio».
Così ha preso la maturità classica, in otto mesi. Come ha fatto?
«Non ci vuole tanto, con l’impegno si supplisce sempre a ciò che ci manca. Ho studiato tutto da sola. Poi mi sono iscritta a medicina. Il mio sogno era curare i lebbrosi in Africa; l’ho realizzato, in parte, solo oggi, grazie alla Fondazione: abbiamo assegnato oltre seimila borse di studio a giovani africane, nel 2009 arriveremo a diecimila. Il resto del mio tempo lo dedico alla scienza: con le mie collaboratrici continuiamo a lavorare sul Fattore di crescita delle cellule nervose».
La scoperta che le ha portato il Nobel. Dicono che quel giorno, a Stoccolma, non fosse troppo emozionata. È vero?
«Ero molto contenta quando ho ricevuto la telefonata. Erano le undici di mattina, verso la metà di ottobre, stavo leggendo un giallo di Agatha Christie. Non me l’aspettavo, anche se molti sostenevano che lo meritassi, e la notizia mi ha fatto piacere».
Ma si è emozionata?
«No, in effetti no, non mi sono molto emozionata. Adesso però basta, sa.

Ho da lavorare».

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