IL RITORNO DEL LUPO SOLITARIO

Al principio fu la «Garzantina». La segnalazione, quasi un annuncio nuziale, prometteva «lirica esuberanza dello stile, talora declamatorio» e «neoromantica aspirazione verso il confluire del destino individuale nel cosmo». M’innamorai perdutamente. Fisico ampio, strutturato su due metri di altezza, viso da Richard Burton, poetico e castigafemmine, morte precoce - a poco meno di 38 anni - necessaria per alimentare il mito: preventivamente Thomas Wolfe (1900-1938) divenne il mio scrittore preferito.
Radioso individualista, imperterrito errabondo, Thomas Wolfe è più anticonformista di Faulkner, più virile di Hemingway, più elegante di Fitzgerald, tanto per dire di tre quasi coetanei assai più celebri di lui. Con i tre supereroi della narrativa americana moderna, Wolfe condivideva l’editor. Maxwell Perkins, appena sfogliato il manoscritto di Angelo, guarda il passato, reduce da innumerevoli rifiuti editoriali, telefonò a Wolfe, dicendogli pressappoco «Ehi Tom, da questo romanzo ne ricaviamo una decina, tu hai solo 28 anni, ci diamo una calmata?». Maxwell cominciò a sforbiciare come il barbiere di Satana: nel 1929 il libro sbarca in libreria e sbanca, è un successo clamoroso (attenti alle date: in quell’anno Faulkner pubblica L’urlo e il furore e Hemigway Addio alle armi). Ubriaco di fama, Wolfe, puro grafomane, uno per cui la vita è autenticata dalla scrittura, continua a redigere la propria infernale epopea in libri oceanici (mai manoscritti inferiori al migliaio di pagine) e continuamente destinati a ridursi in rivoli, dai titoli bellissimi: Il fiume e il tempo (1935), La ragnatela e la roccia (1939), Non puoi tornare a casa (1940). La fama, amante dissennata e ninfomane, fece appena in tempo a solleticarlo: Thomas morì troppo giovane, bello come un angelo.
Innamorato dell’impossibile, varcata la soglia della sanità, desideravo a tutti i costi Thomas Wolfe. Ne ricavai una pillola, Storia di un romanzo (Fazi, 1997), che fece l’effetto di una guêpière: volevo vedere di più. Il libello, pubblicato nel 1935 per scusarsi della propria colossale opera, è violentemente mistico: «so che la lingua, la parola, il linguaggio che io cerco non è stato ancora trovato, ma credo con tutto il cuore di aver trovato la via, di aver aperto un varco, di aver mosso il primo passo». E chi è costui? Pareva un Walt Whitman cesaricida, violento assassino di poeti, che liberi l’aquila americana del Myself, prolungando per millenni il suo «grido barbarico sopra i tetti del mondo». Pareva un Herman Melville che abbia lasciato la penna alla Balena Bianca, scrittura grezza, aspra, rudemente incisa sul grandioso azzurro degli oceani.
Possibile che non si parlasse ovunque, per strada di Thomas Wolfe? Scoprii presto con rammarico che tutto era stato tradotto ma tutto era fuori commercio da 50 anni. L’editore di allora era Mondadori. Comprai a un prezzo indicibile Angelo, guarda il passato, nella traduzione di Jole Jannelli Pintor per Einaudi, anno 1949. Ne ricavai congruo giovamento poetico. Incipit angelico («Nudi e soli giungemmo in questo esilio. Chiusi nel buio del suo grembo non conoscemmo il volto di nostra madre; dalla prigione della sua carne entriamo nell’indicibile prigione di questa terra»), Niagara di parole, brani solari, salutari («Schiavi del Caso, ognuno è lo spettro dell’altro, l’unica realtà siamo noi stessi; schiavi del Caso, l’immenso perno del mondo, e il granello di polvere; la pietra che origina una valanga, il sassolino i cui cerchi concentrici si allargano nei mari»). Indicibile, indimenticabile esperienza da lettore. Di cui non ricordo nulla, solo grevi, gorgoglianti emozioni.
Tornai in libreria. Ne ricavai pochissimo: una raccolta di racconti dal titolo Dalla morte al mattino, edita da SE nel 1988, traduzione di Laurana Berra. Racconti si fa per dire, chiamiamoli sketch poetici, brandelli di romanzo, porzioni di fiume. In Thomas Wolfe non sai dove s’inizia né qual è la fine, non c’è alfa né omega, egli abolisce nascita e morte, c’è solo la brutale corrente dell’esistenza, esegesi pindarica nel mezzo del cammin. Uno di quei brandelli, Orgogliosa sorella morte (già nelle migliori librerie dal 1959, edizione Il Saggiatore) è stato estrapolato e pubblicato da Mattioli 1885, in nuova traduzione, in edizione lussuosa (pagg. 94, euro 12). Inno «all’immortale amicizia dell’orgogliosa Morte, dell’austera Solitudine e del Sonno, amici diletti con i quali io vivrò per sempre», regesto dello «spaventoso mondo del nulla popolato dai mille e mille fantasmi della follia e della disperazione», l’ode urbana pare scritta da un San Francesco dal polso shakespeariano, ispirato dal coro intero delle Muse piuttosto che da Dio, incapace di apprendere l’umiltà.
Il rischio di Thomas Wolfe è l’eccesso di zuccheri lirici: rombante anche quando deve descrivere un tizio che si taglia le unghie, estremo senza rimedio né necessità, alla lunga può procurare indigestione estetica. Consigliato in dosi misurate. Da qui, tuttavia, se piacciono le vicende dei padri e dei figli, proviene la prosa gorgogliante di Jack Kerouac ma soprattutto l’epica artigianale di James Agee (alla minimum fax si fanno vanto di aver «scoperto» Fitzgerald, mentre dovrebbero cacciar fuori dalla soffitta l’opera magistrale di Agee).

Tuttavia, se avesse ragione Robert Penn Warren (altro narratore Usa duro e puro, editorialmente da far risorgere) quando scrive che l’opera di Wolfe è fitta di «brillanti ritratti, di molte acute osservazioni sugli uomini e la natura» da cui «si potrebbe trarre uno o molti bei romanzi», lasciandoci intuire che di determinante Thomas non ha scritto un rigo? Il libro che accoglie il saggio di Penn Warren s’intitola The Enigma of Thomas Wolfe (1953). L’enigma è ancora aperto: a voi la soluzione.

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