La rivincita dei lumbard, da reietti a protagonisti: «Noi i veri eredi del Pci»

nostro inviato a Pontida (Bergamo)

Vent’anni dopo, il dito medio stampato sulle magliette ha tutto un altro aspetto. Dalla rivendicazione alla rivincita, è un grande «tiè, beccatevi questa», il colpo d’occhio sul prato di Pontida, «città del giuramento». Vichinghi e sciure ti dicono che la guerra mica è finita, «anzi, il massimo deve ancora arrivare». Epperò almeno una battaglia è vinta, e l’exploit elettorale ne è solo conseguenza: «Vent’anni fa su questo prato eravamo in 300, tutti vecchi. Adesso ci sono soprattutto i giovani, e nessuno osa più guardarci come fossimo matti» si calca la visiera in testa contro il sole Antonia, che è partita alle 5.20 da Belluno per la venticinquesima volta in vita sua. Così, l’immagine della giornata è quella della staffetta fra due generazioni. Alberto Maffi, che ha 26 anni e non sa come fosse il mondo prima della Lega. È il più giovane sindaco leghista, ha conquistato Gandosso, mille anime rosse da 34 anni, ultimo fortino della sinistra nella «verde» bergamasca. E Elzio Sala, che di anni ne ha 88, cammina col bastone, faceva il bersagliere, «son sempre stato bakuniano» e sul pratone arriva da Varese determinato a regalare a Bossi un’Italia d’argento, «lui deve andare ovunque, ogni Regione la sua Lega, anche in Sicilia, e tutte federate».
Vent’anni fa, i vertici locali della Lega erano costretti a chiedere le strutture alle feste dell’Unità, «loro finivano e noi cominciavamo, ma i numeri non erano mai gli stessi». Adesso, c’è Lionello da Brescia, «voto Lega lombarda dall’89», che ti dice: «Se il Pd crolla in Emilia è perché a sfondare ci siamo noi, mica il Pdl», e Abramo Venturelli di Rho, un passato da «orgoglioso comunista con Berlinguer», che giura: «Siamo gli eredi del Pci». Gianluigi Donghi non è d’accordo, «mai frequentata quella gentaglia», intanto però è lui il simbolo della svolta, ché affetta e cuoce sulla brace salamelle dalle 6 del mattino: un quintale ne ha portate da Bergamo, sono andate via tutte. Sono in 50mila, barbe bianche tinte di verde, l’Alberto da Giussano tatuato sulla coscia di una ragazzina, coperte stese per terra, petti nudi al sole, Giancarlo che sarà pure alto un metro e ottanta per cento chili ma non si capisce come faccia a starsene lì, sotto 40 gradi di sole, col braccio alzato a tenere un mega cartellone. Ma lui ti dice: «Sono grosso e agguerrito, ci sto pure tre giorni qui».
E poi gli striscioni, «Franceschini lassa perd», «Bossi regna Roma si rassegna», «Sinistra zsero tituli», Mourinho docet nonostante Matteo Salvini si ostini a sfoggiare una sciarpa rossonera legata in vita; sopra c’è scritto «Diavoli padani», gli piace ed è inutile l’accanimento della fidanzata Giulia, «Teo, togliti quella roba che muori di caldo». Ecco, Salvini è un altro simbolo della giornata. «Quando fece la dichiarazione sui posti riservati ai milanesi sui mezzi pubblici poi mi chiamò per chiedermi consiglio, ma solo dopo averla fatta» ride Giulia. Troppo tardi, la politica tutta a indignarsi e condannare, ma intanto lui qui è un idolo, all’ora di pranzo fa il giro dei gazebo e raccoglie tanti spiedini quanti voti, a ogni tre passi c’è una foto da fare.
L’altro affezionato dei bagni d’affetto è Roberto Calderoli: è dalle 9 del mattino che gira per il prato in bermuda. Perché Pontida è così, loro dicono che anche la Lega è così, i dirigenti mischiati ai militanti, Roberto Maroni, che quando finisce di parlare sul palco scavalca le transenne e si fa prendere in braccio dalla folla, Renzo Bossi, «la trota», che stringe mani come le star e firma bandiere, Davide Boni, l’assessore regionale lombardo che indossa la maglietta: «Le donne leghiste sono le più belle», Salvini quella più classica: «Padania is not Italy». Il più scatenato è il gruppo di Cisano, cinque ragazzi, ma forse sono venti a giudicare dalla cagnara, saltano e cantano tutto il giorno. Coro da stadio preferito: «Santoro vieni a pescare con noi, ci manca il verme» alternato a: «Vieni a Cisano, Grillo vieni a Cisano». E non sa di invito. C’è Guido Podestà, il candidato del Pdl alla Provincia di Milano, che si guarda intorno ammirato, «sembrano un po’ le prime feste di Forza Italia», si lascia scappare, ma poi si salva: «Qui si sente davvero il popolo», se sia a suo agio davvero con la camicia abbottonata e il foularino col sole delle Alpi al posto della cravatta non è dato sapere, lui giura di sì: «Voi pensate che io sia uno da giacca e cravatta, ma lei come ci va in montagna?». Vista da qui, comunque, la speranza del Pdl di «inglobare» anche la Lega pare vana, ché sì, il popolo padano segue Bossi «il grande stratega» ovunque indichi la via, «ma scioglierci nel Pdl non sarebbe né la fine né l’inizio, semplicemente chi è leghista sa che è impensabile», dice orgoglioso Lionello.
Finito il comizio, le mani sul cuore per il «Va pensiero», c’è un tizio che urla: chiamatemi Calderoli! È alto e grosso che fa paura, maglia bianca attillata sulla pancia, croce d’oro enorme sul petto villoso, sopracciglio unito. Non proprio l’immagine della padanità e infatti Giampio «con la emme» Cardini è marchigiano, Macerata. Tiene in mano uno scatolone verde, dentro c’è un paio di scarpe verdi di coccodrillo, «le ho fatte per Calderoli, me le ha chieste un anno fa».

A Macerata la Lega che pochi anni fa stava per chiudere, «andavamo avanti con l’autotassazione ma a un certo punto eravamo in tre», adesso è stata determinante per conquistare la Provincia, e ha conquistato un parlamentare. È lo sfondamento a Sud, ed è il segno del «massimo che deve ancora arrivare».

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