«Una rivista che venda in tutto il mondo? Mettete assieme il trash e l’Economist»

Il 2010 sarà così: l’esplosione di Brasilia, la rivalutazione del modello educativo finlandese, il trionfo commerciale di un edicolante della metropolitana milanese e la fine di Twitter. Così prevede Monocle, la rivista che dal febbraio 2007, quando è nata, è diventata fenomeno, anche se per pochi. Dieci numeri l’anno, pubblicità esclusive e costosissime, negozi e prodotti del marchio. Crescita media del 12 per cento, con punte del 50 negli Stati Uniti. Un pubblico che adora il direttore fondatore, Tyler Brûlé, 41 anni, origini canadesi, trapiantato a Londra, ex giornalista di tutti i principali media britannici, columnist del Financial Times, creatore della bibbia del design anni Novanta Wallpaper* (l’idea gli venne dopo essere stato ferito in Afghanistan), consulente per il rilancio di Swiss. È lui che l’altra sera ha attirato a Milano i suoi fedelissimi, gli abbonati italiani (sesti al mondo, vendite salite del 20 per cento) per una festa al bar del Principe di Savoia. Un centinaio fra pubblicitari, pr, manager, stilisti e poi i lettori, tutti «internazionali e multiculturali» come da copione (quindi solo inglese, con risultati variabili). Tutti intorno a lui, comunque. Mr Brûlé. Che qualche ora prima, sdraiato su un divano della lobby, racconta il giornalismo secondo Monocle.
Il mondo dei media è in crisi, ma negli ultimi tre mesi avete venduto più che mai. Perché?
«Offriamo qualcosa di tangibile ai nostri lettori: un’esperienza di tipo fisico ma anche qualità, con le fotografie, i servizi, i reportage. Tutti molto costosi».
C’è dell’altro nella formula?
«L’idea era di produrre qualcosa da collezionare. Se ho fretta guardo il blackberry; Monocle può essere sfogliato, letto e riletto, con calma. È uno slow media. Come il roast beef: lo mangi la domenica a pranzo, ma puoi farcirci anche un panino la sera e cucinarlo stufato il giorno dopo».
«Monocle» non è per tutti: è un valore aggiunto?
«Ci occupiamo di moltissimi argomenti, però il nostro pubblico è ancora di nicchia. Abbiamo riempito un vuoto nel mercato».
Il futuro è puntare su un’élite?
«Sì. Basta pensare all’Economist, che ha appena ottenuto i suoi risultati migliori: è concentrato su un pubblico internazionale, a cui offre un punto di vista molto britannico sul mondo».
Però il resto della stampa inglese è in crisi...
«Un giornale deve parlare con una voce chiara, ben riconoscibile. Ma tanti editoriali da soli non creano un’opinione comune».
È un problema d’identità?
«Sì. I lettori poi amano il nostro ottimismo: non abbiamo mai fatto certe copertine deprimenti».
L’identità passa anche attraverso il formato e la carta?
«Certo. Una rivista non è plastica, si riconosce al tatto: l’ultimo numero ha nove tipi di carta. Monocle è creato come un libro, qualcosa che collezioni».
È vero che tutto è nato in aeroporto?
«Sì.

Ho notato che prima di imbarcarsi tutti comprano qualcosa di trash e poi l’Economist: ecco, noi cerchiamo di offrire entrambe le cose, l’intervista al leader del Butan e la boutique, il reportage dall’Afghanistan e la regina dei massaggi. Il piacere e la punizione».

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