La rivoluzione dei bimbi libici che giocano a una vita normale

Il primo ha lo sguardo da ometto, un altro bambino mostra i muscoli e gli amici si tuffano nel mare limpido di Tripoli. Queste sono le prime immagini normali che giungono dalla capitale libica, dopo giorni di battaglia. Quando il colonnello Gheddafi governava le guide del regime portavano i giornalisti sulla spiaggia, fra ombrelloni e bagnanti, per dimostrare che tutto andava bene. Un gruppo di bambini ha deciso di andare al mare proprio il primo settembre, 42imo anniversario della rivoluzione di Gheddafi, senza bisogno di dimostrare nessuna falsa normalità.
Nell’ex piazza Verde, dove un tempo si radunavano le folle osannanti del colonnello nel centro di Tripoli, qualcuno ha tirato fuori un calciobalilla. Un altro scatto immortala due bambini impegnati nella sfida all’ultimo gol. Uno di loro porta un cappello con i colori monarchici della nuova rivoluzione. Con la caduta di Gheddafi cambia tutto, a parte una certa mania di coinvolgere i più piccoli nella propaganda. Prima i genitori li portavano in piazza con un fazzoletto verde in testa o attorno al collo. I padri sparavano in aria con i kalashnikov ed i figli ripetevano all’unisono c’è «solo Allah, la Libia e Muammar (Gheddafi)». Adesso, accanto al verde, hanno aggiunto il nero e rosso dei vessilli ribelli. I padri continuano a sparare in aria, ma giurano che il colonnello è finito.
A parte la propaganda tanti bambini sono finiti in prima linea, come se la guerra in Libia fosse un gioco. Al Zawia, a soli 40 chilometri da Tripoli, è stata fin dall’inizio una spina nel fianco di Gheddafi. In febbraio, quando la piazza principale era occupata dagli insorti, i più piccoli si facevano fotografare con l’elmetto troppo grande in testa e le dita a V in segno di vittoria. Da una parte e dall’altra della barricata tanti bambini hanno imbracciato il kalashnikov troppo pesante per la loro età. Chissà quanti sono morti negli ultimi sei mesi di carnaio.
In Libia, secondo l’Unicef, sarebbero circa 2 milioni i minori, che non dimenticheranno facilmente la guerra come dimostrano con i loro disegni. C’è chi tratteggia Gheddafi con le fattezze di un mostro, altri che disegnano i caccia della Nato come rapaci. Anche noi occidentali abbiamo più di un bambino sulla coscienza per un bombardamento sbagliato, o perché l’obiettivo usava i più piccoli come scudi umani nella speranza che non gli arrivasse un missile sulla testa. Sicuramente erano innocenti i due bimbi e la loro mamma morti agli inizi di agosto sotto le macerie di una casa accartocciata a Zlitan. I volti tumefatti ed insanguinati di Moates, la bimba più piccola, attorno ai 5 anni e di Mohammed si scorgevano dalle bare in legno coperte da un sudario bianco. I familiari urlavano: «È questa la missione della Nato di proteggere i civili?». Nell’hotel Rixos, che per sei mesi ha ingabbiato i giornalisti a Tripoli, l’ultima trovata era la carrellata di foto esposte nella hall dei bambini uccisi sotto le bombe occidentali. Attorno giocherellavano i figli delle nomenclatura del regime, ospitata come pascià nell’albergo. Anche loro chissà che fine hanno fatto, a cominciare dal bimbo di pochi mesi di Moussa Ibrahim, il portavoce di Gheddafi. Fra una conferenza stampa e l’altra lo trovavi con il bambino in braccio, come ogni papà di questo mondo.
Said Islam Yacoub, invece, a 14 anni, è finito a Lampedusa. Orfano di padre, nato in Camerun viveva con la madre a Shebaa, l’ultima roccaforte del colonnello nel sud della Libia. Il 17 marzo, alla vigilia dell’attacco aereo Nato, sua mamma non è più tornata a casa. Yacoub è stato spedito con un barcone di «bombe umane» in Italia.


Da Lampedusa ha scritto una lettera alla mamma dispersa, che commuove: «Tu sei la più bella donna del mondo. Se fossi un fiore ti pianterei nel mio cuore, ti innaffierei con le mie mani. Ti prometto che combatterò con tutte le mie forze per ritrovarti. Io so che sei viva e mi pensi».
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