Quando era ragazzo, perse l’occhio
sinistro. Oggi dice: «Fu
una grande fortuna perché mi
permise di scoprire il mio ruolo nella vita». E che vita: poco più che ragazzo Robert
Thurman va in India, dove, nel
1963 diventa il primo occidentale ordinato
monaco buddista tibetano dal Dalai
Lama; ma dopo pochi anni capisce
che la sua missione non è in India ma nel
suo Paese natale, gli Stati Uniti. Abbandona
la tonaca, sposa una modella svedese,
Nena, che gli dà cinque figli; una
delle quali oggi molto famosa, l’attrice
Uma Thurman. Docente di Studi indo-tibetani
buddisti alla Colombia university,
Thurman traduce diversi testi filosofici
fondamentali; poi
diventa un saggista
di grande successo,
al punto che il settimanale
Time nel
1997 lo include tra
le venticinque personalità
più influenti
d’America.
L’uomo che ha fondato
Tibet House,
l’organizzazione
che difende e promuove
nel mondo la
cultura tibetana, siede
di fronte a me all’Hotel
Straf, a Milano,
invitato da Deborah
Haschke, presidente della fondazione
Tibet House Switzerland. È, come si
conviene a un buddista, umile, autentico,
altruista. Irradia serenità. E non si
risparmia: l’intervista doveva durare
mezz’ora, dopo un’ora e un quarto siamo
ancora seduti a discutere. Appassionatamente.
Alla fine degli anni Novanta Thurman
era persuaso che il mondostesse entrando
in un’era di crescita spirituale, addirittura
in un Secondo Rinascimento. Ma
oggi, invece, sembrano ovunque prevalere
la paura e talvolta l’odio.
Robert Thurman, la sua profezia era
sbagliata?
«Al contrario, il mondo continua a migliorare.
A partire dagli anni Sessanta è
cambiato l’atteggiamento nei confronti
delle donne, dei diritti umani; la democrazia
si diffonde e il pluralismo è considerato
un valore. Certo l’11 settembre è
stato un trauma che ha avuto ripercussioni
importanti, non solo negli Stati Uniti,
ma la tendenza è immutata. Anzi, ho
l’impressione che si stia rinforzando».
Con tutte le guerre e, apparentemente,
gli scontri di civiltà in atto?
«Il punto fondamentale è che esiste uno
scollamento profondo tra le élites politiche
e i popoli. Le prime continuano a
ragionare secondo le vecchie logiche di
una supremazia che deve essere militare
prima ancora che economica, mentre
i popoli hanno altri interessi. Vogliono il
benessere e hanno scoperto che c’è un
modo per perseguirlo: la globalizzazione».
Lei, da sempre pacifista, dice: fate affari
non fate la guerra?
«Le sembrerà strano,mala risposta è sì.
La storia dimostra che le conquiste ottenute
con l’uso della forza e con la repressione
non durano: l’Urss è crollata, la
dittatura maoista ha portato la Cina alla
fame e guardi che cosa succede ora in
Irak. Seppur con contraddizioni e difficoltà,
la globalizzazione permette a
ognuno di prendere il meglio delle civiltà
altrui. Vale per l’economia, per la cultura,
per le conquiste sociali. E in tal modo
si crea un contagio virtuoso».
Anche spirituale?
«Certo. Il Dalai Lama dice: basta con la
gara tra le religioni. Io non vi partecipo,
riferendosi innanzitutto alle critiche rivolte
a quelle orientali, che hanno crescente
successo in Occidente».
Perché chi cerca spiritualità non la trova
nelle religioni tradizionali, nonostante
l’esempio di San Francesco o dei
Sufi islamici?
«Io contesto l’idea che chi fa meditazione
o yoga o Tai-Chi voglia diventare buddista
o taoista. Il punto è che la maggior
parte degli occidentali non crede più ai
dogmi delle sue chiese (paradiso, inferno,
peccati mortali, eccetera); crede invece
nella scienza e nel materialismo. Il
buddismo non è una vera religione, bensì
una filosofia che aiuta a capire come
funziona la mente. È molto concreta:
parte sempre dall’esame della realtà.
Dunque offre più facilmente risposte ai
dilemmi tipici delle società moderne».
Ma c’è chi l'accusa di proselitismo...
«E sbaglia. Il buddismo va interpretato
come un aiuto individuale, che facilitando
il risveglio interiore
permette di riscoprire
l’essenza spirituale
di un uomo e
dunque, se sei credente,
del cristianesimo,
dell’ebraismo,
dell’islam. Ma il principio
vale anche per
chi è laico o addirittura
ateo. Il buddismo
non è dogmatico;
induce a migliorarsi
senza rinnegare
la propria identità,
né le proprie radici
culturali o religiose
».
Globalizzazione oggi
significa capitalismo. Questo non
contraddice le teorie buddiste?
«Al contrario, i buddisti adorano l’economia
di mercato; sin dalle origini l’hanno
considerata come uno strumento per
scoraggiare l’imperialismo militarista,
che è la fonte di molti mali. Il commercio
storicamente aiuta a diffondere le ricchezze
e rende inutili le guerre. Gli altri
popoli sono visti non come dei rivali ma
come dei potenziali clienti. E chi ha interesse
a uccidere un cliente? Dunque il
commercio è un modo per togliere potere
alle élites economico-militari. E questo
è bene».
Ma come conciliare affari e spiritualità?
«Bisogna chiedersi quale sia l’essenza
della felicità. Io rispondo: la capacità di
dominare i sentimenti negativi quali
l’odio, la rabbia, l’invidia, il pregiudizio,
l’avidità.
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