ROBERTS Una vita da dannato e redento

Ex galeotto e mercenario, ora è uno scrittore di successo. Ma con molta inquietudine

Il regista avrebbe dovuto essere Peter Weir, poi si è passati ad altri nomi come Mike Newell (Quattro matrimoni e un funerale), anche se per ora è un nulla di fatto. Ma lui, Gregory David Roberts, australiano di quinta generazione, classe 1952 e autore del romanzo fluvial-epico-filosofico Shantaram (Neri Pozza, pagg. 1178, euro 22), non si cruccia più del dovuto. Il libro sta andando a gonfie vele e viste le premesse anche il film - che si inizierà a girare l’autunno prossimo con la sua consulenza - si preannuncia già un successo.
Al Festivaletteratura di Mantova il suo incontro con i lettori registra già il tutto esaurito. Quando uscì nel 2005 in Italia, il romanzo fece centro fra i critici e i lettori, non prima però di aver folgorato il bel tenebroso Johnny Depp il quale, dopo averlo letto, si affrettò ad acquistarne i diritti per un paio di milioni di dollari. In seguito l’attore e lo scrittore si sono incontrati diventando grandi amici: «Johnny - osserva Roberts - è un uomo speciale, uno che non si dà arie come la stragrande maggioranza di coloro che ruotano intorno allo star system hollywoodiano. La parte del protagonista è perfetta per lui». Pare che il ruolo piacesse anche a un invidiosissimo Russel Crowe che, secondo le cronache, si è candidato per avere almeno una parte nel film. Ma chi è il protagonista di questa incredibile storia che avvince dalla prima all’ultima riga? Chi è il bandito gentiluomo dai mille volti che rifiuta l’etichetta di criminale o di furfante prestato alla letteratura, in realtà un galeotto evaso, un curatore dei diseredati di Bombay, un contrabbandiere di valuta e un mujaheddin in Afghanistan agli ordini di Massoud, leader dell’Alleanza del Nord che combatté prima i sovietici e poi il regime dei talebani per finire assassinato nel 2001?
Lo abbiamo incontrato ieri a Milano, muscoloso, coda di cavallo biondo-castano, galante, espressione cordiale e insieme misteriosa di chi ha vissuto e superato (almeno in apparenza) l’inferno. Nessuno meglio di lui sarebbe l’interprete ideale per recitare il suo ruolo nel film. La sua biografia parla di un giovane studente di filosofia e attivista politico condannato a 19 anni di prigione per una serie di rapine a mano armata, diventato eroinomane dopo la separazione dalla moglie e l’allontanamento della loro bambina. Una vita da dannato e redento che lo vede scappare da una prigione di massima sicurezza, vagare per anni per l’Australia come ricercato, vivere in vari Paesi, fare rapine, allestire a Bombay un ospedale per indigenti, recitare nei film di Bollywood, stringere relazioni con la mafia indiana, partire per due guerre, in Afghanistan e in Pakistan, tra le file dei combattenti islamici, tornare in Australia a scontare la sua pena.
E raccontare tutto questo in un romanzo-fiume di più di mille pagine scritte in parte in prigione e poi memorizzate dopo che un carceriere ne distrusse oltre seicento. («Sei anni di lavoro buttati nel cesso»). Le sue sono trame infinite che alternano l’azione a profonde riflessioni di filosofia sulla centralità dell’uomo nell’universo. «Mi fanno tutti la stessa domanda ogni volta - spiega paziente -. I personaggi sono inventati, anche il protagonista. Gli eventi però sono tutti reali». Come dire, Lindsay, Lin Baba o Shantaram (tutti nomi con cui appare nel libro) è un «uomo di pace» nonché un «most wanted man» e un filosofo che ha smarrito l’integrità nel crimine. Un uomo che quella vita pazzesca l’ha davvero vissuta, simile a una saga che tocca la mente e il cuore. Quando parla inonda, travolge e cattura l’interlocutore con le sue parole e spazia su temi universali e complessi come il bene e il male, Dio, l’Assoluto, il Big Bang, l’amore, il dolore, il perdono, l’esilio e la moralità. Un concetto, quest’ultimo, relativo, «elastico», su cui si può ragionare all’infinito senza certezze apodittiche.
«Al momento - fa dire in proposito a uno dei suoi personaggi, dei presunti alter ego camuffati che di volta in volta esprimono le solite domande insite nell’animo umano - i modi in cui definiamo la qualità morale di un’azione sono per la maggior parte simili nell’intenzione, ma diversi nei dettagli. Perciò i preti di una nazione benedicono i loro soldati che vanno alla guerra, mentre gli imam di un’altra nazione benedicono i loro soldati che vanno ad affrontarli. E tutti quelli coinvolti nella carneficina sostengono che Dio è dalla loro parte. Non esiste una definizione oggettiva universalmente accettabile del bene e del male. Finché non la troveremo, continueremo a giustificare le nostre azioni e a condannare quelle degli altri».
Lo scrittore cita la Bibbia, le Upanishad, la Divina Commedia, il Corano, l’ottuplice sentiero del Buddha. Parla dei suoi incontri con mafiosi eruditi, delinquenti, rabbini, gente comune, aguzzini e torturatori, riservando a ognuno uno sguardo di benevola curiosità e attenzione. «I buddhisti? Hanno ragione al 50 per cento quando insegnano l’arte del distacco, considerando che l’attaccamento è la causa primaria della sofferenza. Non sono d’accordo per il restante 50 per cento. A mio avviso il distacco in sé (considerato dai buddhisti un’illusione come tutte le cose), crea dolore: è dunque un fatto oggettivo, incontestabile. Provate però a chiedere a un buddhista di buttarsi da un grattacielo! Non lo farà mai, si siederà a parlarne con i suoi colleghi continuando ad asserire che anche quella è una pia illusione. Di fatto si guarderà bene dal lanciarsi nel vuoto».
Non abbiamo il coraggio di chiedergli che cosa ha provato quando è stato torturato in prigione, un passaggio dell’orrore descritto nel libro con un’umanissima e incredibile pietas nei confronti dei suoi persecutori.

Ma è certo che Shantaram, letteralmente «colui che dona la pace», è un essere umano che si è dimostrato capace di delinquere ma anche di amare, perdonare e rinnovarsi. Nonostante abbia toccato gli abissi più profondi dell’esistenza.
m.gersony@tin.it

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