"Rock, arte e occultismo Bowie è uno spettacolo"

A Firenze in scena la vita, le canzoni e le beffe del grande cantante morto nel 2016. Parla Andy (Andrea Fumagalli)

"Rock, arte e occultismo Bowie è uno spettacolo"

Andrea Fumagalli, in arte Andy, è musicista e artista. Cofondatore dei Bluvertigo, insieme con Morgan, anima di svariati progetti, come i Fluon, domenica prossima, a villa Bardini di Firenze, terrà uno spettacolo alla ottava edizione del Festival Città dei lettori, diretto da Gabriele Ametrano. Il titolo è intrigante: Il viaggio nel labirinto. Andy racconta David Bowie (con la partecipazione di Eugene). Questa edizione del festival è dedicata ai classici e non c'è dubbio che David Bowie (1947-2016) appartenga alla categoria, potendo vantare una discografia piena di capolavori, da The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972) a Blackstar, uscito due giorni prima della morte dell'autore. Ne parliamo con Andy al telefono.

In cosa consiste lo show?

«Mi hanno chiesto di raccontare la vita di Bowie. Ci ha lasciato un tesoro immane, per forza di cose mi concentrerò su alcuni momenti della sua carriera. Sarà uno show parlato ma anche suonato, interpreterò alcuni brani-chiave».

A cosa allude il labirinto del titolo?

«La vita di Bowie è davvero un labirinto infinito. Pensi solo al modo in cui ha creato personaggi che tornano in momenti diversi della sua storia, il Major Tom di Space Oddity, il suo primo successo, torna poi in quel capolavoro di Ashes to Ashes, molti anni dopo».

Quali sono i momenti e le canzoni che ha scelto?

«Cercherò di seguire un percorso cronologico. Quindi si apre con Space Oddity e la fine della Swinging London, si prosegue con la creazione di Ziggy Stardust, si approda in America. Cercherò di far emergere come Bowie abbia inventato degli alter ego per rendere i cambiamenti più incisivi. Ziggy, Aladdin Sane, Halloween Jack, il Duca Bianco. Fondamentale il ritorno in Europa, a Berlino, dove Bowie realizza alcuni dei suoi album migliori e più sperimentali».

C'è il luogo comune sul fatto che il camaleontismo di Bowie fosse un surrogato dell'ispirazione. Ma riesce a immaginare certa New Wave o il New Romantic senza un disco come Scary Monsters?

«È appunto un luogo comune. Da un lato è stato un anticipatore, e dall'altro ha saputo anche reinventarsi tenendo conto della musica che gli girava attorno. A parte il periodo di Let's Dance, non ha mai pensato alla classifica. Ha svolto la sua ricerca con libertà e onestà».

Qual è il ruolo dei collaboratori illustri di Bowie?

«Bowie era capace di delegare e ascoltare il parere dei suoi collaboratori. Oltre ad avere l'orecchio per scoprire il talento di chi gli stava davanti. Mick Ronson, Brian Eno, Robert Fripp, Tony Visconti. Ecco Tony Visconti è una delle poche costanti nella carriera di Bowie. È un grande produttore e un eccellente fonico, cosa che gli permetteva di tradurre in suono le idee di Bowie».

Bowie ha passato anche momenti difficili.

«Eppure è rimasto produttivo, anche quando era depresso o fuori controllo. Mi piace pensare che Bowie, come Franco Battiato, fosse una persona che ha studiato e letto tanto, soprattutto in gioventù. Ha letto tantissimo di tantissime culture. Nel periodo di Station to Station, a mio parere, l'abuso di stupefacenti ha proprio spostato l'assetto cerebrale. Quel tipo di studio esoterico, unito all'abuso di stupefacenti, lo ha portato a vivere nella paranoia. Ho visto interviste con un Bowie letteralmente terrorizzato. Faceva cose strane. Si nutriva solo di latte. Comprava case ma non metteva i mobili. Aveva paura di aver evocato forze oscure. Ne è uscito».

Però l'esoterismo è rimasto, Blackstar ha molto a che fare con l'occulto.

«È un disco abissale. Se dovessi fare un paragone sceglierei il Libro rosso di Jung».

Cosa trovi di emozionante in questo disco?

«La musica... Il brano iniziale ha una sezione centrale sconvolgente. Anche il modo in cui è stato fatto mi lascia stupefatto. Per il suo ultimo disco, a parte l'eterno Visconti, non ha voluto i collaboratori abituali e ha reclutato una band jazz ascoltata in un locale. È andato incontro alla morte, e ha inciso il suo testamento, senza punti di riferimento. Questo coraggio è parte della sua eredità».

Bowie non è solo un musicista.

«Mimo, attore, artista. L'incontro con Lindsay Kemp è stato fondamentale. Lì Bowie ha capito l'importanza di entrare in un personaggio e il modo di farlo vivere sul palcoscenico. La gestualità del mimo è una sua caratteristica costante. Forse l'aspetto più interessante è il Bowie artista e anche grande collezionista. Bowie ha cominciato a dipingere presto. Già le scenografie di alcuni tour erano sue, ad esempio quelle di Diamond Dogs. In quel periodo, inizio anni Settanta, ha messo a fuoco la pittura. Io l'ho sempre trovato un espressionista. A tratti mi ricorda Egon Schiele. È stato bello anche il suo modo di beffare la critica. Si è preso gioco del sistema».

Cosa ha combinato?

«Si è inventato, insieme con lo

scrittore William Boyd, un pittore, tale Nat Tate, in realtà inesistente. La critica londinese ci è cascata in pieno, gli esperti, o sedicenti tali, giravano in tondo alla ricerca delle opere di questo genio misconosciuto...».

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