Il rock di Ligabue è come il nostro diario

Il regista Piergiorgio Gay ha utilizzato i suoi brani per raccontare, dall'omicidio Rossa ai Mondiali, gli ultimi trent'anni. Ci sono anche le interviste a Carlo Verdone, Paolo Rossi, Javier Zanetti e Fabio Volo

Il rock di Ligabue è come il nostro diario

E ci mancherebbe. Neanche a farlo apposta, la musica di Ligabue è diventata la colonna sonora (e forse più) del docufilm che Piergiorgio Gay presenterà alla Mostra del Cinema di Venezia. In fondo si intitola Niente paura, che è una canzone del greatest hits di Ligabue di tre anni fa, ed è anche l’inevitabile inno di chi vuol raccontare «come siamo e come eravamo», come recita il sottotitolo, senza sbrodolare nell’apologia o rinsecchirsi nel livore ideologico. E in questi vent’anni nessuno meglio di Ligabue, così ecumenicamente e così didascalicamente, ha raccontato la normalità degli italiani, impresa difficile assai in un paese sostanzialmente anormale, socialmente frastagliato come pochi, sempre in balia di misteri veri o inventati o addirittura auspicati. D’altronde per conoscere la normalità, ed esaltarla senza acrimonia o snobismo, bisogna vivere un’esistenza (quantomeno artistica) straordinaria. Quella di Ligabue lo è stata, visto che ha debuttato praticamente a trent’anni, nel 1990, per di più facendo rock, che per un italiano della folkissima Emilia, specialmente allora, era difficile come vendere ghiaccio agli esquimesi. In due decenni, con enfasi creativa o inevitabile scrittura routinaria, è passato - e con lui una generazione o più di suoi tifosi - dall’adolescenza euforica di Balliamo sul mondo, ancora adesso contagiosa dal vivo specialmente per i neoquarantenni, all’elogio vissuto e perciò sincero di Una vita da mediano fino a Buonanotte all’Italia con quel grido istintivo a «un domani che arriva ma che sembra in apnea», così irruente da trasformarlo in un manifesto di tanta nostra sconsolante e aurea mediocritas. Perciò è ovvio che, dopo esserci andato lo scorso anno da protagonista come giurato, Ligabue quest’anno ritorni da musicista, come anima musicale di questo docufilm di quasi un’ora e mezza (una coproduzione Lumière&Co. e Bim Distribuzione) che ha, certo, la pretesa forse esagerata di definire «come siamo» e rischia, almeno sulla carta, di colorare politicamente un racconto che non può esserlo senza perdere autenticità. D’altronde basta scorrere la lista dei personaggi che in Niente paura diventano, parlando e mostrandosi, i testimonial dell’italianità passata e presente: da Stefano Rodotà a Don Luigi Ciotti, da Paolo Rossi a Margherita Hack a Beppino Englaro a Luciana Castellina. Forse, così a occhio e croce, è un coro un po’ sbilanciato, almeno politicamente, e senz’altro capace di suscitare l’ovazione a scatola chiusa di tanta critica. E, non ci fossero anche Carlo Verdone e Javier Zanetti, sarebbe anche un limite a un musicista che in vent’anni si è decisamente sganciato da ogni connotazione politica, rimanendo dentro i confini narrativi di chi vuole soltanto - si fa per dire - raccontare la vita vissuta, scoprendola pian piano identica a quella che vivono, sperano, soffrono in tanti. In fondo, il senso di questo docufilm lo ha spiegato proprio Ligabue qualche tempo fa a Giffoni: «Combatto contro un assunto tipico del rock: per farlo devi fare il nichilista, dire che tutto fa schifo, mentre però tu ti salvi la pelle proprio con questo atteggiamento. Io invece voglio trasferire un messaggio di autoderminazione, come emerge anche nel mio ultimo album: il punto sta nell’imparare a prendersi le proprie responsabilità, che sono molte più di quante noi stessi crediamo».

Volendo, è una ricetta che dal rock può passare a tutto il resto e diventa, in questi trent’anni raccontati in Niente paura, dall’assassinio di Guido Rossa fino ai Mondiali di calcio, l’unico vero modo di prendere fiato e togliere l’apnea al futuro.

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