Il grande romanzo della vita, Mario Vargas Llosa provò a scriverlo candidandosi alle presidenziali del Perù del 1990. C’erano, naturalmente, motivazioni ideali e persino morali, dietro quel passo, nonché un patriottismo frustrato quanto esacerbato, proprio di chi più è ferocemente critico del proprio Paese, più non se lo sa togliere dalla testa, per quanto giri il mondo, per quanto se ne resti lontano. E però, come ha sottolineato chi lo conosce a fondo e nel privato, la molla decisiva fu proprio quella, il rischio e l’avventura, l’esperienza unica di scrivere la realtà vivendola... Vargas Llosa aveva allora cinquant’anni, era uno scrittore famoso approdato dal marxismo della giovinezza a un solido liberalismo conservatore: nessuno o quasi ne discuteva le qualità, ma nell’America latina del populismo e del golpismo, dell’estremismo rivoluzionario e degli squadroni della morte, non era alla moda.
Il diario di quella campagna elettorale, conclusasi con la sconfitta a opera del ciclone Fujimori, è consegnato alle pagine de Il pesce nell’acqua, uscito allora a caldo e che ora vede la luce in Italia (Scheiwiller, pagg. 615, euro 24), ed è un peccato che del ventennio successivo l’editore non abbia sentito la necessità di dare in qualche modo conto, magari con un’introduzione o una post-fazione ad hoc: il vincitore di allora è attualmente in carcere a Lima, dopo dieci anni di potere convulso e corrotto, lo sconfitto ha vinto lo scorso anno il Nobel per la letteratura e insomma c’è stato tempo e spazio per un’altra vita e per ragionarci sopra... Se a ciò si aggiunge una correzione delle bozze sciatta, l’impressione è quella di un’occasione mancata. È un peccato anche perché Il pesce nell’acqua è un libro interessante per come è costruito, resoconto quasi in presa diretta da un lato, autobiografia dall’altro, l’infanzia e l’adolescenza infelici eppure esaltanti di un ragazzo che cerca e trova nella scrittura la strada del proprio riscatto: da un padre temuto e odiato, da un Paese asfittico e meschino.
«Fin da piccolo, le cose e le persone della realtà che mi hanno commosso di più sono state quelle che più si avvicinavano alla letteratura» scrive Vargas Llosa e per certi versi la sua è un’esistenza letteraria: c’è il collegio militare e c’è il bordello, la cronaca nera dell’apprendista giornalista e l’amore scandaloso per una donna più grande con cui per giunta è imparentato (La zia Giulia e lo scribacchino nasce da lì), la scoperta della Francia come luogo deputato della scrittura e dell’impegno letterario.
Nel raccontare la sua esperienza politica di candidato, l’autore nota come nelle ultime settimane di campagna elettorale giornali e giornalisti batterono «tutti i primati nella fabbricazione di merda stampata». Non è una puntualizzazione moralistica. D’accordo con il Max Weber di La politica e la scienza come professioni, egli sa bene che «chi si mette in politica, ossia chi accetta di utilizzare come mezzi il potere e la violenza, ha sigillato un patto con il diavolo, sicché non è più indubbio che nella sua attività il bene produca solo il bene e il male il male, perché spesso accade il contrario. Chi non se ne accorge è un bambino, politicamente parlando». E tuttavia, i colpi bassi e i falsi, la manipolazione, la credulità e la corruzione, l’ingerenza politica, religiosa, economica di cui Vargas Llosa dà conto inducono a più di una riflessione sulla democrazia, le sue regole, la sua fragilità. Se a tutto ciò si aggiunge la violenza (sono gli anni di Sendero luminoso, delle esecuzioni, delle stragi e dei rapimenti «politici», degli scontri sanguinosi di piazza) il quadro risulta ancor più sinistro.
Una delle annotazioni più divertenti, nella sua assurda verità, riguarda un rapporto della Cia in cui lo scrittore, proprio per la sua simpatia per gli Stati Uniti e le sue critiche a Cuba e ai regimi comunisti latinoamericani, veniva definito un candidato alla presidenza pericoloso per gli interessi di Washington... Se l’acqua è inquinata, nemmeno un pesce riesce a nuotarci dentro.
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