Sotto processo da cinquant’anni. Quasi uno per ciascuna delle pecore che avrebbe rubato nell’ormai lontano 1961. Nell’Italia della giustizia che non funziona, la storia di Giovanni Agostino Chessa, pastore nuorese, batte ogni record. Ed è talmente paradossale da apparire inverosimile. E’ dal 1961 che Chessa aspetta il suo turno davanti ai giudici ma l’appuntamento sfuma ogni volta. Com’è possibile? All’epoca fu dichiarato seminfermo di mente e dunque incapace di intendere. Attenzione: la perizia, arrivata nel 1975, parla di «un disturbo psichico non irreversibile».
Eccolo l’aggettivo che permette di uscire dal tempo e trasformare un dibattimento per furto in un laboratorio di longevità. Davanti a una malattia irreversibile la giustizia si deve ritirare in buon ordine. Ma se il disturbo può essere superato, allora i giudici si mettono in fila, armati di pazienza, e monitorano il potenziale imputato per valutare l’evoluzione delle sue condizioni mentali.
E’ esattamente quel che è successo in Sardegna. Solo che le perizie si sono accumulate le une sulle altre e tutte rimandano alla successiva. Chessa è malato, però potrebbe guarire. E se dovesse guarire potrebbe, anzi dovrebbe essere processato. E poi assolto o condannato, come tutti gli imputati di questo mondo. Nell’attesa la posizione del pastore resta nel limbo: la prescrizione è sospesa. Ad oltranza.
Sembra uno scioglilingua, ma questo giochetto va avanti dal 1975 con cadenza semestrale. Ogni sei mesi il tribunale nomina un perito, il perito visita il pastore, poi deposita la sua relazione. Scritta naturalmente a spese del contribuente.
Quando accadde l’episodio, Chessa era un giovane, oggi è un vecchio sulla soglia degli ottant’anni, ma il suo destino è sempre legato a quelle 69 pecore. Furono portate via da un allevamento di Ingoli il 14 giugno 1961. I banditi chiesero un riscatto: 80 mila lire per restituire il gregge. Alla fine furono individuati e processati per abigeato, nel 1972, undici anni dopo il fatto. Qualcuno fu assolto, qualcuno fu condannato, Chessa invece fu chiamato in causa nel 1975. Il giudice, dubitando delle sue facoltà mentali, chiamò un esperto, uno psichiatra, che rilevò «l’incapacità di stare in giudizio». Ma nello stesso tempo aprì una crepa nel muro della non imputabilità, specificando che si trattava di un «disturbo non irreversibile».
Così alla prima perizia ne è seguita una seconda e poi una terza e così via. Il rituale delle perizie si ripete due volte l’anno, ormai dovremmo essere oltre quota settanta. Settanta perizie e cinquant’anni per sessantanove pecore. E non è finita, perché anche l’ultima visita, nei giorni scorsi, si chiude al solito modo: «L’imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo». Per adesso, perché a novembre Chessa tornerà davanti ad uno psichiatra. E, vai a sapere, quella potrebbe pure essere la volta buona. Ma non è detto che sia così. Gli altri protagonisti della storia hanno scontato la loro pena, forse non si ricordano nemmeno più di quella razzia. Basta. Il passato remoto non tornerà. Chessa invece si trova a combattere una battaglia che è ormai anagrafica e lo strano duello fra il quasi imputato e la legge rischia di concludersi, diciamo così, per sfiancamento.
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