Rutelli vuole esportare film, ma la Cina è lontana

Una delegazione ufficiale nel Paese in cui entrano solo 50 pellicole straniere l’anno, di cui 25 americane

Rutelli vuole esportare film, ma la Cina è lontana

da Roma

Mentre Gabriele Muccino, il regista che ha sbancato Hollywood con La ricerca della felicità, ha trovato l’America perché ha talento da vendere sul libero mercato, non sottoposto alla clausola di orientamento politico, etico o religioso e, da italiano, per la prima volta, vola in cima agli incassi Usa, con un prodotto tutto americano, una delegazione di cinematografari di stato, guidata da Gaetano Blandini, capo del settore cinema al Ministero dei Beni Culturali, sbarca in Cina, alla ricerca della visibilità. Fin qui, nulla di strano, se non nel mondo d’un contrappasso simbolico: singolo bravo, perciò isolato in patria («In questo paese non ti perdonano il successo», riflette Muccino) versus gruppo garantito dalle sovvenzioni pubbliche (nella delegatja, il regista Maurizio Sciarra e i produttori Lionello Cerri e Angelo Barbagallo; le attrici Maria Grazia Cucinotta, Jasmine Trinca e Olivia Magnani); competitività versus protezionismo, Rodeo Drive versus piazza Tienanmen. L’asse Roma-Pechino, in realtà, si programmava dal 2004 (reggenza Urbani), senza contare che nell’ex-Celeste Impero, su quasi due miliardi di abitanti, le sale cinematografiche ammontano a circa tremila: troppo poche perché il nostro paese, tremilaettocento sale per sessanta milioni di abitanti, rinunci a mettere il cappello sulla Città Proibita. Tanto più che l’industria cinematografica italiana, in ribasso da decenni, dev’esser libera di confrontarsi con i mutamenti del mercato.
Tuttavia, nel momento in cui il governo cavalca la tigre delle liberalizzazioni, spezzoni di dirigismo e protezionismo riaffiorano nel mare magnum delle intraprendenze, spesate dalla comunità. Vanno nello stesso albero genealogico, infatti, la proposta di legge sul cinema di Rifondazione comunista, presentata dalla senatrice Rina Gagliardi e volta alla programmazione obbligatoria (tot pellicole italiane contro tot americane, tanto che Pupi Avati andrà a Lugano, a vedere i film americani) e la recente spedizione governativa in un paese, per tradizione chiuso alla penetrazione occidentale epperò amato dai nostalgici di Mao. «Abbiamo di fronte i massimi esponenti della cinematografia di Stato, ma sembra di essere a una riunione del politburo», racconta Maurizio Sciarra nel suo rapporto per Cinecittà News. «Mi lancio in un discorso sulla diversità culturale... parlando di come, a differenza di Hollywood, le nostre due cinematografie parlino di sentimenti, dell’Uomo. Il traduttore si rivolge al suo vicino italiano e chiede: “Chi è quest’uomo di cui parliamo?”». Notazione comica soltanto all’apparenza, ma rivelatrice di un’ideologia, che della Cina continua a sognare la lunga marcia della rivoluzione culturale guidata dal Grande Timoniere e non le rieducazioni, raccontate da Bertolucci in L’ultimo imperatore.
Qualche numero, però, parla da solo: in Cina entrano cinquanta film stranieri all’anno, di cui venticinque americani. Da sessant’anni non si proiettano film italiani e a Natale la programmazione di film stranieri è stata bloccata per lanciare l’ultimo film di Zhang Yimou. «È un paese comunista, con regole restrittive», dice Blandini, che il 26 febbraio non accompagnerà Rutelli nel blitz pechinese, a ratificare gli accordi italo-cinesi.

«Ci saranno scambi tra il Centro Sperimentale e l’Accademia del Cinema di Pechino, formeremo restauratori di pellicole, provenienti dal Luce e dalla Cineteca Nazionale», annuncia il manager. Ma provate a chiedere ai cinearchivi di Stato di visionare un qualunque documentario o film con più di vent’anni.

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