Ry Cooder, l’Esopo moderno canta l’America perduta

Qualche anno fa partì alla scoperta delle gemme musicali di Cuba portando al successo Compay Segundo e i «supernonni»; l’anno scorso con Chavez Ravine andò a scovare un’Atlantide perduta nel cuore di Los Angeles (il quartiere messicano distrutto per costruire lo stadio dei Dodgers). Il viaggiatore di suoni Ry Cooder ormai vive per far rinascere nella memoria collettiva un mondo che non c’è più. I suoi non sono dischi ma mappe, itinerari avventurosi in cui si materializzano squarci di dimenticata cultura popolare. L’ultima tappa è l’album My Name Is Buddy, affascinante racconto in 17 capitoli dove i suoni delle radici (i toni profani del blues e quelli vernacolari del country) sposano i canti di protesta dei lavoratori, della generazione che spianò la strada alla vita «on the road», all’incontro della civiltà del nord e del costume del sud sotto il sole californiano. «Queste non sono cose che insegnano a scuola - dice Cooder -, a chi interessa un mondo di poveracci che si massacrano sulle strade d’America? Così ho pensato: prendo un po’ di amici e faccio lo stesso viaggio dei lavoratori che andavano in cerca di fortuna. Voglio raccontare un’epopea molto dura: nonostante ciò che si vede nei film non c’erano angeli che cantavano nei bar e la terra promessa era un miraggio quasi impossibile da raggiungere. Oggi nessuno usa più il termine operaio, eppure questi uomini sono stati la spina dorsale d’America. Hanno lottato nelle miniere, guidato camion sulla interminabile Highway 95 per conquistare i loro diritti. I giovani degli anni ’60 hanno completato il lavoro con il sesso libero e il rock, ma tutto nasce dalle battaglie precedenti». Anche la musica. «Soprattutto; c’era il blues di artisti randagi come Son House e di predicatori come Blind Gary Davis, le frecciate di Pete Seeger e Woody Guthrie, quelle country di Hank Williams e Charlie Poole, tutti capolavori di realismo folk».
Un disco splendido, dai contenuti politici e al contempo dai suoni tradizionali, quasi reazionari, con il contributo di maestri quali Pete Seeger (al banjo in J.Edgar), Mike Seeger, Paddy Moloney dei Chieftains, il re del mandolino bluegrass Roland White, il vecchio amico Flaco Jimenez alla fisarmonica. Un tuffo nel passato alla Springsteen o una ricerca da studioso come Alan Lomax? «Una cosa completamente diversa. Springsteen ha rieseguito classici del passato; Lomax vedeva la musica come uno scienziato. Io canto canzoni nuove in una prospettiva antica. Racconto pagine di storia scomoda attraverso la metafora. Come personaggi uso gli animali, incrocio Fedro ed Esopo con Walt Kelly, il cartoonist che lavorò con Disney e che creò i libri del trasgressivo Pogo. Buddy, il protagonista, è un gatto dalle mille risorse». Come nasce l’idea? «È il secondo capitolo della trilogia partita con Chavez Ravine; poi seguirà la storia dei suoni honky tonk texani. Un giorno ricevo una fotografia del bluesman Leadbelly con un gatto rosso al posto della testa e la scritta: “tu sai cosa fare con questa”. La sfida mi ha affascinato, lavorando di fantasia ho scritto una storia vera e drammatica attraverso i simboli». Quale l’obiettivo? «Una denuncia. Vorrei che la gente si identificasse in queste storie.

Artisti come Randy Newman mi hanno detto che questo disco è un suicidio professionale, ma in questi suoni c’è l’anima del rock. E poi ho 60 anni, quindi me ne frego di ciò che piace o non piace alla gente. E Buena Vista e Chavez ravine mi hanno dato ragione anche dal lato commerciale».

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