Sabato il rock ha cambiato la sua storia

Giusto concludere questa straordinaria festa del Live 8 con Hey Jude, classico beatlesiano rifatto in coro da McCartney, George Michael e da tutti i presenti alla kermesse londinese. «È sciocco chi fa l’indifferente/rendendo il mondo un po’ più freddo», ammonisce il testo, e il riferimento alle finalità di questo evento planetario è trasparente. Magari avrebbero potuto intonare, con ancor maggiore pertinenza, All together now, «tutti insieme adesso/nero bianco verde rosso», ma va bene così. Del resto, se resta indiscussa la finalità idealistica, e anche sottilmente polemica, di un’iniziativa che ponendo l’accento sulla tragedia africana affidava ai grandi del rock una sorta di supplenza politica, rammentando ai potenti del pianeta le loro inadempienze, non meno possente appare la valenza culturale, in un avvenimento che segna prepotentemente, e in maniera irreversibile, la storia del pop. Affidando alla musica, tra l’altro, una funzione «civile» che da Dylan in poi, includendo i maggiori tra i nostri cantautori, ha dovuto sempre scontrarsi con la grettezza bottegaia della discografia, dunque con una concezione della musica come semplice evasione, e come genere merceologico e nulla più.
Il Live 8 - ed è significato che ad aprire la giornata londinese siano stati gli U2, e De Gregori abbia inaugurato quella romana - è tra le poche iniziative capaci d’affrancare la musica da questa sorta d’ignavia morale: anche sotto questo profilo Bob Geldof ne esce, per la seconda volta, in trionfo, e siamogliene grati. Ma la kermesse planetaria di sabato è stato anche un momento, davvero storico, d’affermazione della musica come valore estetico, valore a prescindere. Pur con gli inevitabili alti e bassi del «palinsesto», sono prevalsi i momenti d’altissima qualità: in capo a tutti la straordinaria prova dei Pink Floyd, che con Roger Waters hanno ritrovato la forza onirica del loro passato remoto. E poi, grandissima, Annie Lennox, e ancora gli Who, un’entusiasmante Céline Dion, Stevie Wonder, Sting, Elton John, e da noi Zucchero, Ligabue, la Mannoia esaltante in Sally, di Vasco Rossi, e nel Clandestino di Manu Chao. E un irresistibile Jovanotti, anche in trio con Ligabue e Pelù. E Venditti che, in gran forma, ha concluso con Roma capoccia la kermesse romana, affiancato dal «batterista» Carlo Verdone e da Claudio Baglioni. Quest’ultimo in preda al consueto, irrefrenabile presenzialismo, intento a cantare da solo e a duettare con tutti su tutto.

Ma va be’, se le intenzioni sono buone, qualche intemperanza, all’ego, possiamo concederla. Del resto, in questo Live 8, i duetti sono stati assai meno di quanto avremmo sperato: non sempre la generosità, negli artisti, ne mitiga l’individualismo.

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