Cultura e Spettacoli

SACHA GUITRY Il principe della commedia

Incarnò la Belle Epoque ma tenne a battesimo la radio e la tv d’Oltralpe. Classico sul palcoscenico, fu uno straordinario innovatore del grande schermo. Emblema della «Douce France», ne fu anche il suo critico più sottile

nostro inviato a Parigi
Il padre era il principe della scena di Parigi, aveva per amici Eleonora Duse e Chaikovsky, Sarah Bernard e Chaliapin, Emile Zola e Renoir, era molto amato, era un grande amatore. Dopo una tournée trionfale a San Pietroburgo, il suo rientro in patria aveva coinciso con un soprannome mutuato dallo zar Ivan il Terribile, Ivan Le Terrible per i suoi connazionali, e adattato ai sofà dei camerini teatrali: Divan Le Terrible... Si chiamava Lucien Guitry, era immenso nel fisico, nobile nel gesto, magniloquente nella voce, megalomane nel comportamento: «Voglio una casa intorno a una scala» aveva detto all’architetto che costruì per lui l’abitazione di Avenue Élisée-Reclus, ai piedi della Torre Eiffel. E infatti, quando entravi c’era questo scalone più in sintonia con la reggia di Versailles che con uno stabile borghese.
Sacha Guitry, suo figlio, nacque in questo clima e con queste conoscenze, attori, pittori, scrittori, musicisti, tutti pronti a coccolarlo, ciascuno intenzionato a regalargli un poco della propria arte. Nel 1915, quando a trent’anni girò il suo primo film muto, non dovette fare altro che cucire insieme le riprese amatoriali che riguardavano le frequentazioni paterne, ovvero i suoi numi tutelari: Anatole France, Saint-Saëns, Rostand, Rodin, Monet, Degas... Lo intitolò Ceux de chez nous, i nostri, in parole povere, e se quel plurale maiestatis permise alla Francia di farne il manifesto culturale della Grande guerra, il simbolo della civiltà latina contrapposto alla «barbarie» teutonica, è altrettanto vero che, nell’ottica dell’autore, quei «nostri» erano i suoi e insomma i Guitry, padre e figlio, erano la Francia.
Mon père avait raison è il titolo della pièce che nel 1919 sancì il passaggio di consegne fra i due. Il «principe delle scene» rifiutò a lungo l’idea che il figlio potesse succedergli. Che scrivesse, che dipingesse, che componesse, che si impegnasse in politica o nel giornalismo, che facesse, al limite, l’autore teatrale, tutto, ma non l’attore! Sul palcoscenico di Guitry ce ne poteva essere uno solo: Lucien. Sacha fu all’inizio costretto a recitare sotto un altro nome, fra loro si instaurò il gelo che segue un amore troppo intenso. Erano ambedue molto orgogliosi, erano ambedue molto superbi, erano ambedue molto innamorati di se stessi. Scrivendo una commedia con quel titolo, Sacha fece il primo passo verso la riconciliazione: accettando di interpretarla al suo fianco, Lucien fece il secondo. Al successo di pubblico e di critica che ne seguì, si deve il terzo, ultimo e definitivo: se in generale i Guitry erano la Francia, non c’era più alcun dubbio che il teatro fosse i Guitry...
In questi giorni Mon père avait raison viene recitato al teatro Edouard VII da Claude Brasseur e da suo figlio Alexandre... Non è l’unico testo di Sacha a essere rappresentato sulle scene parigine. Sempre allo stesso teatro si possono vedere quattro atti unici, raccolti sotto il titolo Un type dans le genre de Napoléon, alla Comédie des Champs-Elisées, Jean Piat ha allestito De Sacha à Guitry, al Mouffetard va in scena Guitry au lit, al Pepiniere-Opera, Aux deux colombes, al Sudden Theatre, Pourquoi je trouve la vie amusante, al Tambour Royal, De Guitry, al la Loge, Faison un rêve, al Mhiland, Une folie... Niente male per chi se n’è uscito definitivamente di scena mezzo secolo fa, prostrato ma non domato da una malattia che gli aveva tolto l’uso delle gambe. «Come andiamo» gli chiedevano gli amici e lui, indicando la carrozzella: «Come vedete, su delle rotelle». Poco prima di morire disse a Lana Marconi, l’ultima delle cinque mogli che aveva avuto: «Non guardarmi più, non è un bello spettacolo». Poi chiuse gli occhi e mormorò: «Forza ragazzi, in vettura!».
A cinquant’anni dalla scomparsa, insomma, Sacha Guitry è ancora vivo e se non bastasse questa sua presenza massiccia nei teatri ci penserebbe l’imponente mostra allestita alla Cinémathèque française a dimostrarlo (Une vie d’artiste, fino al 28 febbraio), duecentocinquanta documenti inediti, la retrospettiva completa dei suoi trenta e passa film, un intero piano della struttura di rue de Bercy dedicato ai molti talenti, ai molti travestimenti e alle molte vite di chi incarnò la Belle Epoque, ma tenne a battesimo la radio e la televisione francese, fu un classico delle scene teatrali e un innovatore di quelle cinematografiche, l’emblema della Douce France e il suo critico più sottile, il seduttore brillante e il collezionista d’arte impenitente.
Tutto, lo abbiamo visto, chiamava Guitry alla grandezza. Nel 1912 il grande caricaturista Sem ne anticipò così la futura carriera: «È il bambino viziato, il bambino predestinato, il bambino del miracolo, il bambino-feticcio a cui si perdona tutto. Di lui è stato detto che le fate lo abbiano riempito di doni. Ha avuto di più: gli amici del padre, Jules Renard, Alphonse Allais, Courteline, Tristan Bernard... l’élite degli scrittori del tempo. Ha imparato a parlare ascoltandoli, già i suoi primi vagiti erano spiritosi».
La grandezza era un modo d’essere e di comportarsi. Sacha vestiva come fosse un nobile del Settecento catapultato nel Novecento: grandi cappelli, grandi mantelli, superbe vestaglie, splendidi accappatoi, foulard, bastoni da passeggio... Era un profluvio di sete e di velluti, di morbide lane. A ciascuna delle sue mogli associò il nome di un sarto di grido: Poiret per la prima, Charlotte Lysés, Lanvin per la seconda, Yvonne Printemps, Paquin per la terza, Jacqueline Delubac, Maggy Rouff per le ultime due, Geneviève de Séréville e Lana Marconi. Henry Lartigue, il genio assoluto della fotografia, ne ha lasciato un ritratto scritto che parla da solo: «Caviale, aragoste alla griglia e pollo alla crema sulla tavola da pranzo, Lautrec, Renoir e Monet sulle pareti». Dopo mangiato, e prima delle prove generali di L’amour masqué, lo accompagna da Charvet per l’acquisto di una cintura, dall’antiquario Bernheim per quello di un quadro. Si spostano su un coupé Renault guidato da Sacha, a recita finita c’è l’impegno di rivedersi nella villa di Cap-d’Ail e magari fare qualche puntatina al casino.
Eppure, quest’uomo che si circondava di reliquie, una scultura di Rodin, un manoscritto di Flaubert, una lettera di Toulouse Lautrec, una prima edizione del Tartufe corretta dalla mano di Molière, aveva un senso artistico della modernità straordinario. Prendiamo il cinema, per esempio. Dietro l’ironia spiazzante di chi, rispondendo alla domanda se abbia il tempo per farlo, replica: «Si ha sempre mezz’ora da perdere», si nasconde uno sperimentatore e un rivoluzionario. I primi film di Godard, À bout de souffle compreso, gli sono debitori dal punto di vista estetico e della forma, Alain Resnais non si stancherà mai di sottolinearne l’importanza per il suo lavoro, Eric Rohmer rivendicherà il possesso di una medesima sensibilità, Truffaut ne esalterà lo stile e la libertà nel girare... Viene da Guitry l’uso della voce fuori campo, il mischiare i titoli di testa al film in sé, la scenografia teatrale applicata al grande schermo, l’entrare e l’uscire degli attori dalla parte, così da commentarla... E anche qui, ha ragione la sua ironica megalomania: «Non voglio dare lezioni a nessuno in questo campo. Ma devo aggiungere che non ne accetto nemmeno».
Il «buco nero» di Guitry furono gli anni della guerra. Era, come già suo padre, «il principe delle scene di Parigi», lo andavano a vedere i francesi, ma anche i tedeschi, era festeggiato dai primi, ma anche dai secondi, fece un film, nel 1944, tratto dall’omonimo libro che due anni prima aveva ideato e realizzato scegliendo testi, autori, foto, formato, impaginazione, rilegatura. Si intitolava De 1429 à 1942 ou de Jeanne d’Arc à Philippe Pétain, ovvero la storia di Francia raccontata nella sua fierezza, senza attori, solo effigi, maschere mortuarie, calchi, parole, musiche.
Era un altro Ceux de chez nous trent’anni dopo, ma lì c’era una nazione che entrava in guerra e la vinceva e qui una nazione che l’aveva persa e si era ritrovata occupata. Lo stesso maresciallo Pétain gli disse che, forse, non era prudente... «Non sono mai stato prudente, sempre per paura di passare per poltrone» dirà lui in seguito.
Alla Liberazione fu arrestato per collaborazionismo, fece sessanta giorni di carcere, fu processato. In tre anni, per due volte i giudici stabilirono un non luogo a procedere, «probabilmente perché non c’era alcun luogo» ironizzò lui. Alla fine, ci scrisse sopra un libro Quatre ans d’occupations. Tornò a lavorare, visse altri dieci anni, fece ancora sedici film, ebbe ancora una moglie, lottò contro una malattia devastante.

Quando morì, un giornale mise in pagina le foto delle sue interpretazioni di Luigi XI, Francesco I, Luigi XIV, Napoleone e Cambronne e ci fece sopra questo titolo: «La Storia sono io».

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