L'Italia ha un piano pandemico: ma nessuno lo ha applicato

Il nostro Paese dal 2018 è dotato di un piano in cui sono state recepite tutte le direttive dell'Oms: ma, nel contrasto al coronavirus, qualcosa non è andata per il verso giusto

L'Italia ha un piano pandemico: ma nessuno lo ha applicato

È passato un mese da quando l’inferno è piombato sull’Italia, da quando cioè il coronavirus ha manifestato la presenza nel nostro paese. Da allora l’epidemia ha creato un crescendo di lutti e paure, oltre che ai disastri economici derivanti dalla necessità di chiudere gran parte delle attività.

Tutto questo, è la domanda dopo le prime quattro settimane da incubo, poteva essere evitato? Una risposta ad oggi è difficile trovarla ma, alla luce di dati sempre più allarmanti che rispecchiano una situazione da vera e propria guerra, è chiaro che qualcosa non ha funzionato. A partire dall’applicazione dei piani previsti per queste emergenze, per quando cioè il territorio nazionale appare, proprio come oggi, sotto il chiaro attacco di una vasta epidemia.

Così come si apprende da Il Fatto Quotidiano, il nostro Paese nel 2018 ha varato dei piani specifici in merito. Sono stati predisposti atti e vagliate misure volte a prevenire i disastri che oggi invece stiamo subendo. Si tratta di piani che ogni Paese potenzialmente deve avere e deve curare, come accade ad esempio per le operazioni di emergenza da attuare in caso di calamità naturale.

L’Oms, dopo l’epidemia di Sars del 2003, ha obbligato tutti i governi a dotarsi di un piano anti pandemico. Nel 2005 sono state dettate, sempre dall’organizzazione mondiale della sanità, le linee guida per arrivare alla stesura dei vari piani, fatte proprie anche nel programma di emergenza italiano del 2018 il quale ha sostituito il Piano Italiano Multifase per una Pandemia Influenzale del 2002.

Seguendo lo schema del programma italiano, si distinguono tre fasi di valutazione dell’epidemia: la prima quando non ci sono pericoli immediati, ma si hanno notizie di primi focolai all’estero di una potenziale vasta epidemia, la seconda invece riguardante i primi casi sul territorio nazionale ed infine lo scenario più grave, quello riguardante i focolai autonomi registrati nel Paese.

Fasi tutte attraversate gradatamente, dagli inizi di gennaio fino alla fine di febbraio, prima di arrivare all’attuale situazione di disastro. È come dunque se le barriere che dovevano essere attivate secondo il piano di emergenza, fossero state alla fine scavalcate e rese non funzionali, permettendo al virus di dilagare.

Considerando che, nonostante i ritardi del governo di Pechino, la Cina ha comunque fatto sapere a gennaio di trovarsi dinnanzi ad una grave epidemia, la prima parte del piano doveva essere attivata nel primo mese dell’anno. In questa fase, è prevista in particolare “la preparazione di appropriate misure di controllo della trasmissione dell' influenza pandemica in ambito ospedaliero”. E dunque, rifornire medici ed addetti ai lavori di tutto quanto necessario per prepararsi ad eventuali situazioni di contagio nel territorio nazionale.

Ma non solo: nel piano si legge che in questo frangente occorre anche “l’individuazione di appropriati percorsi per i malati o sospetti tali, il censimento delle disponibilità di posti letto in isolamento e di stanze in pressione negativa, il censimento delle disponibilità di dispositivi meccanici per l'assistenza ai pazienti”.

Responsabili di questo procedimento sono il ministero della Salute, l’Istituto superiore di sanità e le regioni. Queste ultime, a loro volta, hanno dei propri piani pandemici regionali da attuare una volta ravvisato il pericolo.

Evidentemente la catena da attivare dopo le prime avvisaglie non si è mossa all’unisono. I sistemi, nelle prime regioni raggiunte dal contagio da Covid-19, sono andati subito in tilt. Oggi, ad un mese dall’esplosione dell’emergenza, ben si conoscono i problemi di approvvigionamento di mascherine e di tutto il materiale occorrente per fronteggiare la guerra al virus.

Forse è stato sottovalutato il problema, forse ci si è distratti nel momento in cui l’epidemia iniziava a sfruttare i primi spiragli dati dalle falle del sistema, difficile ad oggi dirlo con certezza.

Di sicuro, non tutto ha funzionato alla perfezione e questo ha contribuito alla diffusione del coronavirus ed al grave stress a cui oggi il sistema sanitario è sottoposto, con centinaia di medici costretti ad operare in situazioni molto complicate. Qualcosa quindi non è andata nella giusta direzione. Ed oggi è corsa contro il tempo per contenere altre complicazioni.

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