Salvare Giuseppe Berto. L'antidoto al male oscuro della cultura italiana

Abbiamo sempre trascurato i nostri artisti "irregolari" tipo Testori e Rosai. Dovremmo imparare dalla Francia

Salvare Giuseppe Berto. L'antidoto al male oscuro della cultura italiana

La notizia dell'acquisizione dei diritti per le opere di Giuseppe Berto (1914-1978) da parte dell'editore Neri Pozza è molto più importante di quanto sembri, perché tocca il cuore di un problema con il quale tutta la cultura italiana - si può dire dall'Unità d'Italia fino a oggi - ha dovuto fare i conti.

Berto, uno degli autori italiani più letti per almeno vent'anni (pensiamo solo a Il male oscuro) ma al tempo stesso autore per così dire «incollocabile» (come altri del resto) nel cosiddetto panorama culturale nazionale, è un sintomo di questo problema, che a mio parere è stato finora letto in modo poco adeguato alla sua importanza.

Questa dell'acquisizione è senz'altro una bella notizia. La pubblicazione (Bur, 2012) di Tutti i racconti di Berto segnò uno dei punti più bassi della storia dell'editoria italiana: nessuna introduzione critica, nessuna nota ai testi, e grazie a Dio c'era l'indice - alla fine, si badi bene, della prima raccolta in volume dei racconti dello scrittore di Mogliano. Il fatto, perciò, che un editore intenda occuparsi (speriamo lo faccia con il dovuto rigore) dell'intera opera di Berto ci può solo rallegrare: finalmente qualcuno ci pensa.

La notizia mi ha portato alla mente, per un'associazione immediata, un bellissimo libro che lessi alcuni anni fa, mai tradotto in italiano: Les antimodernes, ossia «Gli antimoderni» di Antoine Compagnon, l'insigne storico della letteratura. In quel libro Compagnon tracciava il profilo della letteratura francese della Modernità attraverso una serie di «medaglioni» dedicati a coloro che, di fatto, ne erano stati i protagonisti (da De Maistre a Benda, da Chateaubriand a Péguy, da Bloy a Roland Barthes) ma che, guarda caso, prima o poi si erano dichiarati suoi nemici. In altre parole, sostiene Compagnon, in Francia la modernità l'hanno fatta gli antimoderni.

Tutto ciò mi spinge a pensare che per lungo tempo la Francia abbia saputo costruire una casa per tutti i suoi uomini di cultura, i «regolari» come gli «irregolari». A questo ha contribuito prima di tutto l'organizzazione degli studi, espressione a sua volta di una ben precisa idea della funzione che la cultura deve assolvere all'interno di un Paese.

Bene. Il caso Berto ci fa comprendere che per l'Italia non è stato così. La sua vita travagliata, il suo passato fascista, il suo non sapersi collocare politicamente nell'Italia del Dopoguerra, ma soprattutto il suo enorme talento che lui però usò in parte anche per dissiparlo (o forse non poté fare altrimenti) ci introducono a un problema sempre mal posto nei nostri dibattiti.

Il nostro peccato d'origine, parlo di noi italiani, sta nel fatto di non essere riusciti a fare dell'Università la struttura centrale per la formazione culturale del Paese. È mancata la forza di fare questo, almeno fin dal Dopoguerra. L'Università è diventata perciò un sistema di piccoli poteri, dove al massimo si sono potuti formare ottimi specialisti. Ma dare cultura a un Paese non vuol dire solo formare specialisti.

Questo ha fatto sì che a dare una casa alla cultura italiana, fin dal Dopoguerra e soprattutto dagli anni Settanta, sia stata soprattutto l'ideologia dominante, cui possiamo dare tanti nomi: massonica, azionista, radical, eccetera, fino al nefasto politically correct, di cui la sinistra s'impregnò fino a identificarvisi. Tanto che noi chiamiamo «cultura di sinistra» qualcosa che non è esattamente di sinistra, ma che la sinistra o una gran parte di essa ha fatto propria.

Io non giudico questo fatto. Dico solo che una «casa» della cultura italiana c'è stata solo in quell'ambito. Per «casa» intendo la possibilità per un artista, uno scrittore, un poeta di sviluppare il proprio talento ricevendo un appoggio adeguato, potendo lavorare in pace stando dentro una rete di rapporti per così dire virtuosi.

In Francia i Péguy, i Bloy, i Céline, gli Houellebecq, i Finkielkraut, i cattolici-cattolici così come gli scrittori dichiaratamente di destra possono essere detestati dalla cultura radical-chic, ma appartengono con lo stesso diritto al sistema della cultura francese, tanto che un guru come Compagnon può fare di alcuni di loro i cardini della modernità.

In Italia, viceversa, a causa della fragilità del sistema universitario, la tendenza è sempre stata quella di creare una specie di «arco costituzionale» della cultura. Artisti come Berto, o Testori, o Rosai sono e restano degli «irregolari», ed essere irregolari in Italia è difficile, dissiparsi è tentazione costante, perché da noi un irregolare ha come solo punto di riferimento se stesso o, al massimo, qualche occasionale amicizia politica, che può fare di te un «vate» (come il fascismo con D'Annunzio) ma sempre e solo per un'investitura politica, per un indebito esercizio di potere, e non ti toglierà mai dal limbo della tua anomalia. E questo è così vero che da noi si usa ancora l'orribile verbo «sdoganare».

Questa

situazione ha fatto dell'Italia un Paese culturalmente vecchio. Perciò chiunque, come Neri Pozza, tenti di rimettere mano a un lavoro sistematico su questi «irregolari» compie un'azione forse piccola, ma senz'altro meritoria.

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