San Suu Kyi lascia la Birmania e viene a prendersi il suo Nobel

«Tu puoi anche non occuparti di politica, ma è la politica che si occupa di te».
Così, un po’ per amore del paradosso, e molto perché ci credeva veramente, in uno di quei pomeriggi di caldo afoso e di noia mortale sul cancello della sua villa, a Rangoon, rivolta a uno dei soldatini meno ebeti che di tempo in tempo montavano la guardia a quella che per oltre due decenni è stata la più famosa «sequestrata» del mondo: il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. È stato il regista francese Luc Besson, presentando qualche mese fa il suo «The Lady», dedicato all'eroina birmana, a ricordare quell’episodio. Viene buono ora, quell'aforisma, nel momento in cui la più affascinante delle dissidenti sbarca in Europa, dopo 24 anni di forzata assenza, per un «grand tour» che si annuncia più trionfale della tournée di Madonna. Viaggio politicamente difficile, tuttavia, perché l’annunciato successo del tour andrà in qualche modo mediato; e se non artificialmente, forzosamente svilito dalla necessità di salvaguardare il processo di riforme in Birmania evitando di urtare la suscettibilità di chi ancora detiene gelosamente il potere.
Ventun anni dopo averlo ricevuto, Aung San Suu Kyi potrà dunque pronunciare, sabato a Oslo, il suo discorso per il conferimento del Nobel per la Pace. Ma anche qui dovrà stare attenta a calibrare le parole, sempre per non urtare i nervi dei generali che proiettano ancora l’ombra dei loro berretti sulle istituzioni di Rangoon. Dalla Norvegia, la leader dell’opposizione birmana, eletta deputato ad aprile nelle fila della Lega nazionale per la democrazia, si recherà in Gran Bretagna, Paese dove ha compiuto i suoi studi e messo in piedi la sua famiglia. Da Londra, dove terrà un discorso al Parlamento, San Suu Kyi si recherà infine a Parigi, dove sarà accolta in pompa magna dal neo premier Hollande. Insomma saranno due settimane, dal 13 al 30 giugno, da raccontare, tra incontri pubblici e privati, dopo una detenzione ai «domiciliari» che non sembrava finire mai.
Storia, eroica e affascinante, di una donnina di 50 chili che per anni, sacrificando anche i suoi affetti più cari a un ideale di libertà e di giustizia per il suo popolo riuscì a tenere testa a un esercito di 300 mila uomini e ai generali di una Giunta di intonazione sudamericana, ovvero ridicola e feroce.
Nel citato film di Besson la vita di Aung San Suu Kyi è raccontata attraverso una serie di flash back che ripercorrono la sua storia: lei bambina, tra le braccia del generale Aung San, padre della patria birmana, poco prima della sua uccisione in un agguato, fino alla sua vita da grande, ormai madre di due bambini in Inghilterra e al ritorno a Rangoon, nel 1988, per assistere la madre malata, nel pieno di una rivolta repressa nel sangue. Comincia in quegli anni lontani la vita da dissidente dell’eroina birmana che pur di non darla vinta ai generali accetta con la morte nel cuore la separazione dal marito Michael Aris, accademico di Oxford, e dai due figli Alex e Kim. Ferma, incrollabile nella sua decisione, nelle sua terribile testimonianza anche quando il marito si ammala di cancro. Sarebbe stato facile, comprensibile, umano, allora, imbarcarsi per Oxford, come i generali mellifluamente le consigliavano.

Invece resta dov'è, lontana dal marito morente e dai figli, fedele ai milioni di altri «figli» che negli anni hanno imparato a vedere in lei, in quella donna bella e leggera come una farfalla, ma incrollabile come un samurai, la loro vera madre della Patria.

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