Maria Vittoria Cascino
Brutta storia il Manfrei. Che prima t'agguanta come solo un racconto di guerra sa fare e poi ti molla a mezz'aria. Perché mica te la cavi voltando pagina. «Lo sa quant'è che ci lavoriamo al monte Manfrei?». Michele Giusto ti pianta gli occhi stretti addosso. Mica si fida di quello che scrivi di corsa e su un pezzo di carta riciclato. È lì per raccontarti di una vita, di una missione, di un sogno. Tu lo guardi prima di ascoltarlo, lo guardi per capire quello che non ti sta dicendo. Lo guardi mentre nervosamente butta lì frammenti di una strage e con un occhio scruta l'impronta che ti lascia addosso. Perché su quel monte isolato e disabitato, a quota mille, sull'Appennino Ligure fra Genova e Savona, vicino al Passo del Faiallo, l'associazione nazionale Fiamme Bianche sta lavorando per ricordare quei duecento marò della San Marco «che a guerra finita vennero uccisi qui».
Michele Giusto è il presidente dell'associazione. Un uomo che, sessant'anni dopo, seduto ad un tavolino di un bar anonimo straziato da un ritmo spacca timpani, ti sta dicendo che pala e piccone l'hanno alzato in tanti per farci una strada al Manfrei. Per farci una piazza. Per farci la base in cemento armato su cui piantare una cupola. «Abbiamo eretto un altare in pietra e intorno piante disposte ad arco. Su ogni pianta c'è una targa in marmo dei reparti della divisione decimata».
Ti consegna un foglio: «È tutto scritto qui». Lo scorri velocemente, ma lui sta scappando. Manca qualcosa. Quello che Giusto trattiene dietro l'espressione asciutta. Quello che lega decine di uomini in tutta Italia al monte Manfrei. Manca la storia e gli studenti folli che nel settembre 1943 entrarono in classe con la divisa. Glielo chiedi una, due, tre volte che ti racconti cosa è successo al Manfrei. Giusto sorride. «Mica facile capirlo. Anche per chi c'era». Si toglie gli occhiali. Ha deciso di fermarsi mentre le dita allacciate chiudono il cerchio.
«A Sassello era di stanza un reparto di 600 Marò, divisione di fanteria di marina San Marco. Il comando era al Giovo. Il 24 aprile 1945 gli uomini in servizio qui, in armi, attraversano Aqui già occupata dai partigiani e si disperdono. Un altro gruppo viene catturato e trasferito a Voltri-Sestri Ponente. Almeno una quindicina di corpi sono stati trovati qui. Alcuni ufficiali invece trattano la resa dei loro uomini con i partigiani, che promettono di lasciare andare i marò se avessero consegnato le armi». I 200 uomini di stanza a Sassello raccolgono le armi, arrivano a Palo e le consegnano ai partigiani. «Qui inizia la loro odissea. I ragazzi passano da una zona all'altra, da una brigata all'altra. Se li contendono la Buranello e una formazione bianca. Hanno la meglio i primi. Che portano i marò nella zona del Manfrei, gli fanno scavare le fosse e li ammazzano».
Nel 1954 il dottor Giulio Zunini, già segretario politico durante la Repubblica di Salò e allora sindaco di Urbe, ottenne dai Comitato Onoranze Caduti di erigere una croce «che venne divelta quasi subito. Mani ignote ne composero un'altra di tronchi, legati frettolosamente. Ma soprattutto c'era la Noemi Serra Castagnone, che passò il monte palmo a palmo. Ne trovò cinquanta di fosse con sessanta corpi dentro. Privati dei segni di riconoscimento. Cancellati». Vennero riesumati e tumulati a Staglieno e Altare. «Prosegue le ricerche Ernesto Grosso, ufficiale delle Gnr. Ma inciampa nelle bocche cucite della gente di lì. Che conosceva gli eccidi compiuti dai partigiani. Che aveva paura a parlare. Perché i componenti di quelle bande continuavano a scorrazzare in zona».
Zunini e Grosso iniziano a ricordare la strage. Rosa Melai organizza le prime cerimonie. Nel 1984 le Fiamme Bianche si assumono la salvaguardia del Manfrei, in accordo con l'allora presidente della San Marco, Cesare Brenna. Torna una nuova croce sul monte. «Silvana Gajone, cognata di Zunini, acquista il terreno del Manfrei e le Fiamme Bianche creano la onlus Croce al Manfrei. Per dare veste giuridica ad un progetto ambizioso: costruire su questa terra bagnata dal sangue dei Marò un simbolo della Rsi».
La musica continua a battere in testa e Giusto l'ha fatta fino in fondo la sua parte. Perché te lo deve dire da dove arriva questo fiume in piena. «Ma lo sa che avevo 17 anni l'otto settembre 43? Che all'istituto tecnico Vittorio Emanuele mi sono presentato in divisa? Eravamo tutti studenti e tutti con un solo obiettivo: contrastare l'invasore». Cerchi di immaginarteli: sbarbatelli pieni di ideali, cresciuti a pane, patria e disciplina. Che scappano di casa per l'onor di patria, che finiscono accasermati a Velo D'Astico, dove confluiscono 8000 ragazzi dall'Italia e dall'estero. Erano i ragazzi volontari della Rsi e sul bavero le mostrine bianche che non li volevano ancora uomini.
«Dopo il campo noi genovesi veniamo destinati alla contraerea in una batteria tedesca lungo il Po. Resistiamo agli anglo americani fino alla fine dell'aprile '45. Finiamo in mani partigiane, ma nel tempo c'eravamo conquistati la fiducia della gente del posto. Che ci difende e sostiene. Gli stessi partigiani nel giugno '45 ci metteranno a guardia, con tanto di moschetto, dei loro magazzini per evitare furti di merce. Giungemmo anche ad imporgli una parola d'ordine, che loro, rientrando a notte fonda e magari ubriachi, dimenticavano, finendo rincorsi a fucilate». Quattro mesi di prigionia e poi a casa. «Torno a Genova dalla zia, perché ad Arenzano mi aspettavano. Non posso andare a scuola per due anni perché epurato. Riesco poi a concludere gli studi e nel '49 parto per il Cile. Dicevano ai miei fratelli che quando tornavo quella pianta era mia».
Nel '59 è di nuovo in Italia. Nel '60 riprende i contatti con i camerati già organizzati in associazione d'arma. Poi è venuto l'impegno del Manfrei. «Riusciamo a far parlare quella gente che non batteva più i boschi per timore di inciampare in mani e piedi affondati nella terra. Li incontravamo di notte e di nascosto». Oggi c'è qualcos'altro da fare. Giusto ha portato una sua pubblicazione, «L'ultima frontiera dell'onore», curata da Pierfranco Malfettani.
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