Il sanguinoso teatro dell’attrice Jiang Qing

Fu una starlet fallita, divenuta moglie di Mao Zedong, a guidare le Guardie Rosse all’assalto del potere. Ferocia e misfatti della Banda dei Quattro

Shanghai
L’invito, ma sarebbe meglio dire l’ordine, di «bombardare il Quartier Generale» arrivò il 5 agosto di quarant’anni fa. Aveva la forma di un dazibao, il «giornale a grandi caratteri», era stato vergato dal presidente Mao in persona, sancì di fatto lo scoppio della Grande Rivoluzione Culturale proletaria. Fu allora che gli intellettuali si ritrovarono classificati come «nona categoria puzzolente» e collocati al fondo della scala sociale. Scritto e affisso a Pechino, in occasione dell’Undicesima sezione plenaria del Comitato centrale, il documento confermava e rilanciava quanto era stato scritto e affisso a Shanghai nove mesi prima, ovvero il battesimo a mezzo stampa di quello che allora sarebbe stato definito il Gruppo dei Quattro, in contrapposizione al Gruppo dei Cinque, o Gruppo per la Rivoluzione Culturale, contro cui era sceso in campo, e in seguito, una volta sconfitto, più semplicemente e più volgarmente «la Banda dei Quattro». Ne facevano parte un operaio, Wang Hongweng, un giornalista, Yao Wenyuan, un critico d’arte, Zhang Chunqiao. Il quarto elemento era una donna, Jiang Qing, una ex attrice di cinema che sugli schermi cinesi, nome d’arte Lang Ping, non aveva avuto fortuna, ma che nella vita era divenuta la quarta moglie di Maozedong.
Nella residenza di Mao, oggi museo, a Wiehailu, all’angolo con Maoning Beilu, un intrico di viuzze e panni stesi su cui incombono i trentasette piani del Four Seasons, di Jiang Qing non c’è traccia, il che storicamente è corretto. Fa parte dell’epoca gloriosa di prima ancora della Lunga Marcia, quando il comunismo non era una certezza ma una scommessa, così come il museo che è stato eretto sulla casa che tenne a battesimo il Partito comunista cinese nel luglio del 1921, o, poco distante, la dimora storica di Zhou Enlai. Qui però la figura di Jiang Qing, per quanto assente in effigie è presente in spirito dietro le foto che ricordano le manifestazioni di cordoglio per la morte di Zhou, e che sfociarono nel cosiddetto «incidente di Tienanmen». Si vedono corone e ghirlande bianche, con al centro il ritratto del leader scomparso, deposte nella piazza a fianco del monumento agli eroi e accompagnate da scritte e messaggi ostili alla Banda dei Quattro. «Devi essere folle a voler essere un’imperatrice. Hai formato una piccola banda per fomentare il caos continuo, ma i tuoi giorni sono contati. Sei come un cane pazzo che abbaia al sole». Era il 5 aprile 1976, e quel giorno i reparti di polizia di Pechino, chiamati a svuotare e a «ripulire» la piazza, si ritrovarono ad affrontare una specie di guerriglia urbana. Deng Xiao Ping, che della Rivoluzione culturale era stato dieci anni prima il principale bersaglio, e che da poco era tornato sulla scena politica, considerato l’orchestratore del dissenso, fu rimosso nuovamente da tutti gli incarichi, ma ormai erano gli ultimi fuochi. Già gravemente malato, Mao morirà cinque mesi dopo, il 9 settembre, il 6 ottobre l’intera Banda dei Quattro verrà arrestata e gettata in carcere. Condannata a morte, pena poi commutata in ergastolo, Jiang Qing si impiccherà in cella nel 1991.
Naturalmente, la «Rivoluzione culturale» è pura farina del sacco di Mao, e sottolineare il ruolo dell’«imperatrice rossa» sposta di poco il peso della bilancia. Solo che vista da Shanghai l’intera vicenda ha un sapore particolare che val la pena di gustare sino in fondo. Quello che fu un sanguinoso scontro per il potere, vinto il quale Mao non ci pensò due volte a usare l’esercito per rimettere al loro posto le Guardie rosse a cui doveva la vittoria, per Jiang Qing rimase uno scontro culturale, il radicalismo di Shanghai contro il tradizionalismo, in stile Opera di Pechino, ed era il radicalismo di chi, ventenne trent’anni prima, aveva cercato di far carriera nella più crudele e più mercenaria delle città, dove vendere la propria carne e il proprio sorriso non era sufficiente per assicurarti la gloria.
Venuta dalla provincia, Jiang non aveva alle spalle il potere familiare che permetterà alla sua coetanea shanghainese Chiu Chin di atteggiarsi a rivoluzionaria e femminista, vestita in abiti maschili, un Fedora sulla testa. Né aveva le entrature, altri avrebbero detto il talento, di Chou Houan, la ««voce d’oro», come la chiamavano i suoi fan, di Angelo della strada, un classico del cinema cinese dell’epoca, o di Ruan Ling-yu, l’eroina di La dea, la «Garbo di Shanghai», 26 film in nove anni. Nel romanzo di Lu Hsun Rimorso, la donna indipendente aveva come destino o il ritorno a casa, e quindi la sconfitta, oppure la prostituzione e la fame e quindi il disonore e la morte. Chen Pai-lu, la prostituta del dramma teatrale Alba di Tsao Yu, si uccide perché non riesce a impedire che una sua giovane protetta faccia anche lei «la vita»... È contro questo combinato disposto di fatalismo e tradizione, di ruoli definiti e di caratteri che Jiang Qing scenderà in campo, e il suo comunismo significherà veramente tabula rasa del passato, rivoluzione permanente affinché nulla del passato possa più tornare, rivincita per ciò che avrebbe potuto essere e non fu, il successo, la fama, il potere. Negli anni della Rivoluzione culturale, sono otto i «modelli di spettacolo», interpretati via via da milioni di cinesi, che scriverà e farà rappresentare, lo scontro-lezione fra i mali dell’antica società e il «nuovo regno della virtù rossa». Il più famoso, La ragazza dai capelli bianchi, mette in scena la storia di Xier, in fuga dal crudele padrone, la chioma incanutita per le notti passate al gelo. Nella scena clou, il suo grido, il pugno chiuso rivolto al cielo, suona così: «Io sono l’acqua che non può essere asciugata, il fuoco che non può essere spento. Vivrò. E sarà mia la vendetta».
Alla casa-museo di Mao, così come in quella di Zhou o nel mausoleo dedicato al Partito, si può comprare il volume Red Colors-New Soldier. Pubblicato in lingua inglese da Phaidon, raccoglie l’archivio fotografico di Li Zhensheng, fotoreporter dell’Heilongjiang Daily, il quotidiano di Harbin, una città dell’estremo nord della Cina. È la prima storia visiva della Rivoluzione culturale mai pubblicata, più di trecento immagini i cui negativi sono rimasti nascosti e conservati per quasi quarant’anni. Che sia in vendita nei musei ufficiali non è casuale, e del resto lo puoi trovare anche nelle due librerie di Shanghai che trattano libri stranieri, nonché nei bookshops dei grandi alberghi... È il logico corollario di ciò che nell’XI Congresso del 1981 venne sancito: «La pratica ha dimostrato che la “rivoluzione culturale” non costituì una rivoluzione o un progresso sociale. La responsabilità principale di quello che fu un errore grave, ampio e protratto nel tempo, risiede in Mao. Nei suoi ultimi anni, lungi dal fare un’analisi corretta confuse il giusto con lo sbagliato, scambiò il popolo per il nemico». E tuttavia, siccome «gli errori sono secondari, i suoi meriti primari», il ruolo e il peso di Mao non sono in discussione. Dice Li Zhensheng nella introduzione a quello che, semplicemente, è un libro agghiacciante, che allora «tutta la Cina fu un teatro in cui il pubblico sempre più si fece attore: dal più povero contadino intento a una “sessione di lotta” al “nemico di classe” costretto a umiliarsi chinando il capo; dal denunciato ai denunciatori; dai ribelli ai rivoluzionari, dalle guardie rosse alle vecchie guardie. Tutti recitarono la loro parte. Con bracciali e bandiere, cartelli e manifesti, libretti rossi sventolati.

Il palcoscenico era dominato da una stella immobile, circondata da milioni di persone, ora urlanti, ora silenziose». Fu Mao il regista ringhioso e onnipotente di quello spettacolo pazzesco. Come ammetterà Jiang Qing prima di morire, «Io ero il cane del Presidente. Se mi diceva di mordere, mordevo».

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