Politica

Sanità, tutti gli sprechi del Sud che piange miseria

Calcestruzzo depotenziato, ovvero scadente, marcio, pericoloso, e un ospedale fatto evacuare «per gravissimo rischio sismico». Il club delle meraviglie degli sprechi sanitari ha celebrato ieri l’iscrizione di un nuovo, prestigioso, socio: l’intero complesso ospedaliero di San Giovanni di Dio, ad Agrigento, messo sotto sequestro dai giudici prima che crollasse in testa ai suoi 400 posti letto.
Un acquisto, da parte del circolo delle strutture incompiute, dei nosocomi fantasma, dei reparti lager, nel solco della tradizione, nel rispetto delle peggiori prestazioni registrate negli anni dal lato oscuro della sanità italiana. Non manca nulla al caso del San Giovanni: una storia di ritardi ultraventennale - inaugurato nel 2004, il progetto originale fu approvato dalla Cassa del Mezzogiorno nel 1983 -, fiumi di denaro - oltre 100 miliardi di lire - e fiumi di veleni e polemiche.
La sanità meridionale soffoca, chiede soldi, pretende altri finanziamenti che poi spesso vengono utilizzati male. Due regioni commissariate in questi giorni, lo scandalo di fondi malgestiti e di ospedali inutili, il grande caos del Sud che ha fatto carne da macello della gestione della sanità, adesso mostra anche il suo lato peggiore: quello della costruzione di ospedali fatiscenti già nella fase di progettazione, o di lavori cominciati e mai finiti, o di stabili completati e mai usati.
Certo il caso di Agrigento non può competere con un campione assoluto come l’ospedale di San Bartolomeo in Galdo, in provincia di Benevento. Intitolato in pompa magna nel 1997 a Padre Pio - forse con l’augurio che il santo dipanasse magicamente una matassa di ritardi, appelli, proteste, negligenze e corruzioni - deve ancora oggi entrare in funzione. La posa delle prima pietra avvenne nel 1958, i milioni di euro spesi sono arrivati a essere in tutto ventiquattro (gli ultimi quattro nel 2008 per l’ennesima girandola di lavori di «messa a norma»), e ancora adesso è un colosso inattivo da 150 posti letto; e i sanbartolomeani continuano a fare 45 minuti di strada - anche se con un infarto in corso - per raggiungere il più vicino pronto soccorso.
Vivere senza il pronto soccorso: capita, nel 2009, in Italia. Capita a Scalea, nel cosentino. Qui gli abitanti devono percorrere 15 chilometri di strade imbottigliate nel traffico nel periodo estivo per arrivare a Praia a Mare, poiché l’ospedale, il cui progetto risale alla fine degli anni 60 - 20 miliardi spesi della Cassa del Mezzogiorno - è oggi un grande scheletro di cemento che accoglie degrado invece dei 120 posti letto che gli ingegneri gli avevano assegnato.
Ma le storie degli sprechi sanitari italiani non affondano tutte nei decenni passati. Accadono benissimo anche oggi: come il caso dell’«ospedale del mare», a Napoli. La posa della prima pietra dell’ambizioso progetto di dotare il quartiere di Ponticelli di una struttura da 450 posti letto con tanto di eliporto, albergo per i parenti dei malati e centro commerciale risale a maggio 2006. Doveva entrare in funzione 30 mesi dopo, regalare all’area un polo di eccellenza, ma ad oggi solo il 40% della struttura è realizzata. Sul caso indaga la magistratura, e se anche il costo finale dell’opera per ora non è stato aumentato - 210 milioni di euro -, l’entrata in servizio sì: si parla del 2012. E comunque la data di fine lavori non sempre corrisponde all’entrata in servizio dei reparti: basta prendere a esempio quello che accade a pochi chilometri in un altro ospedale napoletano, il San Gennaro: qui, denuncia il capo gruppo al Consiglio Comunale del Pdl Ciro Varriale, sono «più di 5 anni che i locali della rianimazione sono stati ristrutturati, arredati con attrezzature specifiche per otto posti letto, ma a causa di cosiddetti problemi tecnici e per mancanza di personale, restano chiusi e inutilizzati». L’usanza di riempire locali di costosissime apparecchiature, prima di abbandonarli, è una delle declinazioni più assurde del fenomeno: a Oppido Mamertina, provincia di Reggio Calabria, alle spalle del vecchio ospedale, oggi a rischio chiusura, sorge quello che doveva essere il nuovo ospedale di un paese di poco più di 5mila abitanti. Un casermone di tre piani, ora fatiscente e pericolante, dotato di tutti i macchinari che servono per una moderna sala operatoria. Mai usati, e ora inutilizzabili. Inutilizzabili come gran parte dei locali dell’ex ospedale di Roccaromana, ancora in provincia di Caserta: qui fino a 15 anni fa esisteva una struttura ospedaliera. Era anche piena, appunto, di attrezzature.

Le apparecchiature sono state depredate, e ora alla popolazione resta solo un altro, eccellente, rudere di proprietà pubblica.

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