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Sarà un’ombra da bere in compagnia

Nane, el fachin, si frega le mani sul ponte della Malvasia. Non ne poteva più di passare a bere un’ombra, vicino alla Madona Granda, senza poter urlare la sua passione per il calcio. Lo prendevano in giro come se fosse l'uomo delle girandole, quello delle bellissime fotografie di Aldo Nascimben. Non c'era posto, fra le Mura, per il pallone preso a pedate. Treviso si godeva altre storie sportive: la bislunga per quelli del rugby; la palla a spicchi per quelli del basket; quella più cea dei pallavolisti Sisley; scudetti e coppe in quantità.
Sì, bravi, con Benetton alle spalle è più facile, diceva Nane, ma noi del balon, almeno, non abbiamo mai tradito i colori della città che sono il bianco e l'azzurro. Gli ridevano dietro, anche se tipi come il mediano Paludetto, che aveva mangiato il sano fango del rugby a Treviso e poi a Milano, hanno scritto storie di sport bellissime dove c'era davvero questa nostalgia dei colori abbandonati, anche se il verde Benetton, più dell'oro granata Sisley, è comunque bandiera della Marca amorosa.
Adesso Nane se la gode, anche per i colori difesi, ci sperava, sognava che l'Omobono Tenni diventasse qualcosa di speciale, un piccolo stadio dedicato ad un motociclista nel cuore della città, anche se si rende conto che sarà proprio il campo il problema più grande perché in quei vicoli non puoi farci entrare le masse del calcio di serie A. Se il computer avesse portato l'Inter al Tenni o, come si teme, a Padova, invece che il Treviso a San Siro il 28 agosto, sarebbe già stato un disastro e questa cosa fa venire il mal di stomaco a tutti quelli come Nane convinti che il calcio nella Marca ha sempre vissuto di luce riflessa, amato, ma, soprattutto, tollerato, guardato con uno strano affetto da Treviso come succede con il Montello dei tempi antichi quando i veneziani chiusero alla gente il sacro bosco per poter tagliare alberi da usare per le loro navi, un divieto che poi è rimasto per sempre anche quando il leone della Serenissima non dominava più.
Fare in fretta, dicono, implorando, allo sceriffo Gentilini, trovare una soluzione, fare più presto possibile per mettere insieme una squadra di calcio che possa reggere nella Cà dei ricchi. Certo una città di quasi 80.000 abitanti, una provincia che non supera le 800.000 anime, con tutte le sue squadre sportive nella massima serie degli sport che contano, merita un racconto a parte, un premio speciale oltre a quelli già conquistati come il centro multietnico e polisportivo della Ghirada, con le invenzioni Benetton, con i 42 scudetti portati sul Sile e sul Cagnan, con i tanti azzurri regalati allo sport italiano. Il calcio, che solitamente mangia tutto, a Treviso, questo è certo, non ruberà nessuna anima alle altre chiese dello sport come è accaduto in molte città, Parma ad esempio, le stesse Milano e Roma ciclicamente, in questa contea sarà invece un'ombra da bere in compagnia, un momento speciale senza che la cittadinanza rovesci un cassonetto scoprendo che non c'è tempo e forse non ci sono i quattrini, né per avere uno stadio da serie A, né per mettere insieme una squadra competitiva. Qualcosa da regalare al calcio comunque Treviso l'avrà sicuramente: la sua voglia di terzo tempo, la profonda cultura sportiva, la dolcezza complice dietro ai famosi «tre visi».

Riuscirà a sopportare l'invasione del popolo calcistico senza farsi contaminare, anche se non sono tutti santi quelli che vanno al Palaverde, al Tenni o a Monigo, senza disperarsi se l'avventura dovesse finire il 14 maggio 2006, perché la città saprà camminare sulle sue acque come ha sempre fatto in ricchezza e in povertà.

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