Con Sartre e de Beauvoir nel secolo lunghissimo

In Italia i libri belli e importanti si pubblicano quasi di nascosto, per non distrarre la gente dai bestseller del momento. Così, quasi in sordina, è uscito anche da noi La lepre della Patagonia (Rizzoli, euro 24). Seicento pagine scritte da Claude Lanzmann, il regista di Shoah, Tsahal, Perché Israele?. L’ex direttore di Les Temps Modernes. La firma dei principali quotidiani e settimanali francesi. Il sodale di Sartre e Deleuze. L’amante di Simone de Beauvoir. Il ragazzo che nel salotto di famiglia incontrava Jean Cocteau, Paul Éluard, Louis Aragon, Francis Ponge e cento altri. L’amico di Henry de Montherlant, Michel Tournier, Merleau-Ponty. L’uomo di sinistra ammiratore di Charles De Gaulle. Il militante della resistenza ai nazisti e del movimento anticolonialista algerino. L’inviato nella ancora sconosciuta Germania Orientale. Il primo a entrare nella Corea del Nord in pieno delirio comunista. L’artista che si faceva finanziare film da Begin mentendo a tutto spiano sulla durata («Non oltre le due ore», assicurava, ma Shoah supera le nove). E si potrebbe andare avanti a lungo, raccontando tutti i luoghi e i nomi e le circostanze che rendono la vita di Lanzmann un crocicchio in cui si intersecano la storia privata e l’intero XX secolo. Ma ridurre tutto ad aneddoto sarebbe fare un grave torto a questo libro.
Lanzmann, pur conservando l’aria blasé di chi sta buttando giù qualche ricordo in ordine sparso, mette a punto un congegno a orologeria. In mezzo c’è la tragedia e anche il comico del Novecento. Ma sono l’incipit e la speculare conclusione a dare il tono e il senso del libro. Le prime trenta pagine tolgono il fiato. La ghigliottina della Rivoluzione inaugura la modernità, e ne diventa il simbolo perché la storia, almeno da allora, è un mattatoio a cielo aperto in cui la morte è somministrata da operosi e anonimi burocrati. Europa, Asia, Oceania, Africa. Patibolo, forni crematori, carestie, fucilazioni, decapitazioni. La rassegna è devastante e crudele nell’accumulo di particolari raccapriccianti. La strage è universale, le vittime sono universali, i carnefici sono universali. La violenza è sempre politica, diversa di caso in caso, ma anche innata: è il destino scritto nel Dna della specie. E il rifiuto di piegarsi alle aggressioni distingue l’uomo dal vigliacco, chi ama la vita (ed è disposto a difenderla) da chi la disprezza: «Mi sono schierato nell’interminabile seguito dei ghigliottinati, degli impiccati, dei fucilati, dei garrotati, dei torturati di tutta la terra, e sono diventato l’ostaggio dallo sguardo vuoto, l’uomo sotto il coltello. Si sarà capito che amo la vita alla follia e che, ormai prossimo ad abbandonarla, la amo ancora di più».
Lanzmann, nato a Parigi nel 1925, passa l’adolescenza come membro del partito comunista nella Francia occupata dai nazisti, bacia per la prima volta una donna per sottrarsi allo sguardo della Gestapo, manda al diavolo i compagni che gli chiedono di essere sleale con il resto della resistenza (in cui, per aggiunta, milita il padre), rischia la vita in battaglia, vince la guerra e si trasferisce all’università di Berlino, settore francese. Riesce immancabilmente a ficcarsi nei guai, causa una serie di articoli dedicati agli ex nazisti che hanno ripreso allegramente il proprio tran tran accademico.
Rientrato in Francia, finisce sotto l’ala protettrice di Jean Paul Sartre a cui sono dedicate pagine memorabili. Generoso, brillante, sincero anche nelle uscite politiche più controverse. Ma anche un tipo rigido come uno stecco. Ossessionato dal non dipendere dagli altri, scivola nel grottesco, e preferisce perdersi per chilometri piuttosto che tirar giù il finestrino dell’auto e chiedere informazioni. Convinto che la volontà sia sovrana, sopporta stoicamente il mal di denti, e continua a scrivere come niente fosse, mattina e pomeriggio: anche la guarigione deve arrivare da sola. In tasca, sempre per non dover ricorrere agli altri in caso di imprevisti, tiene sempre un rotolo di banconote. Dal 1952 al 1959 Lanzmann è anche amante di Simone de Beauvoir detta il “Castoro”. Ne esce una sorta di triangolo, con Simone che si divide equamente tra l’amante Lanzmann e l’ex amante Sartre: «Trovavo giusto e normale che partisse in viaggio o che passasse gran parte delle sue vacanze con Sartre, e lui trovava normale e giusto che lei facesse altrettanto con me». Nel 1953 vanno tutti e tre a Saint-Tropez e si procede alla lottizzazione. Lunedì Simone cena con Sartre in un tavolo separato da quello di Lanzmann. Martedì accade il contrario. Mercoledì tutti assieme. Il “Castoro” trasmette poi la passione per l’alta montagna a Lanzmann. È l’inizio di una serie di scalate avventurose. Anche troppo, visto che rischiano la pelle inerpicandosi con equipaggiamento fantozziano sul Cervino. Totalmente inesperti, ma anche un po’ pirla, affrontano un ghiacciaio in espadrillas e vengono salvati per miracolo dai bersaglieri dell’esercito italiano.
Poi ci sono pagine, anche drammatiche, sulla Cina della rivoluzione culturale, sul conflitto arabo-israeliano, sulla guerra d’Algeria. Tutto vissuto in prima persona. E rapidamente, nonostante la corposità del libro, si arriva all’epilogo: la nascita di Shoah, film strepitoso in cui Lanzmann rintraccia i superstiti e i carnefici dei lager nazisti e riesce a far dire loro l’indicibile. Il cerchio è chiuso: dalla strage universale a quella calata nella storia, con le sue irriducibili peculiarità.
Ancora una parola sul titolo apparentemente oscuro. La lepre della Patagonia è quella della scrittrice Silvina Ocampo, braccata dai cani e posta come epigrafe («“Dove stiamo andando?” gridava la lepre, con voce tremante, acuta come una freccia. “Alla fine della tua vita” urlavano i cani con voci da cane»).

Ma è anche la lepre apparsa all’improvviso davanti ai fari della macchina di Lanzmann sperduto in Patagonia, come si legge nell’ultima pagina del libro: «In quell’istante io e la Patagonia eravamo reali insieme. Eccola l’incarnazione. Stavo per compiere settant’anni, ma tutto il mio essere esultava in preda a una gioia selvaggia, come a venti».

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