Satira, vignette e barzellette Così si rideva sotto il fascismo

Arriva in libreria la raccolta di storielle sul regime pubblicate nel Ventennio dagli umoristi Giusta & Ferri. Si scherzava molto su Mussolini e l'ironia era ancora più diffusa che oggi. La rivista diretta dalla coppia di autori, Il travaso delle idee, uscì dal 1900 al 1966

Satira, vignette e barzellette 
Così si rideva sotto il fascismo

Mussolini, in una delle sue prime visite ufficiali a Vittorio Emanuele III come capo del governo, dice: «Maestà, ho fatto installare al Quirinale una linea telefonica diretta per comunicare direttamente fra noi». «Ah, bene», risponde il re: «E qual è il numero?» «Sei uno zero», scandisce il duce. È una storiella da terza elementare, ma aveva molto successo durante il regime fascista: un tempo che oggi ci appare crudo, se non crudele, ma in cui la maggior parte degli italiani disponeva ancora di una semplicità contadina e si rideva - come si piangeva - con facilità. Le barzellette erano di gran moda, come i giornali umoristici, molto più di oggi, e se ne faceva uso abbondante, negli spettacoli di varietà come fra la gente. Sempre sottovoce, e soltanto fra amici sicuri, quando si trattava di scherzare sul fascismo, i suoi gerarchi e - soprattutto - il suo capo.

Nonostante il consenso di cui godeva il regime, era pur sempre vero che «Piove, governo ladro» e era irresistibile il gusto di dissacrare il privato quel che si esaltava (o si doveva esaltare) in pubblico. Gli stessi fascisti facevano uso abbondante di questa valvola di sfogo politico, e i bersagli preferiti erano proprio i gerarchi più invisi. In particolare, negli anni Trenta, il segretario del Partito Nazionale Fascista, Achille Starace, cui non era difficile imputare una certa stolidità. «È vietato portare il colletto della camicia nera inamidato» non è un motto di spirito ma un vero foglio d’ordini del potentissimo segretario, che veniva ricambiato con questa storiella: «Achille scopre su un muro la scritta STARACE CHI LEGGE. Infuriato, prende una matita e corregge: NO, STARACE CHI SCRIVE!».

A Mussolini venivano riservate anche storielle inventate per chi sa quale capo di chi sa quale Paese, valide per ogni tempo e luogo. Questa per esempio, mi è capitata di risentirla applicata a Silvio Berlusconi, di recente: «Un inventore riesce a ottenere un incontro con il duce, sostenendo che sta per scoprire un modo per arricchire il Paese: trasformare la cacca in burro. Mussolini lo riceve, chiede dei suoi studi, dà ordine di finanziarlo molto generosamente e lo congeda. Dopo molti mesi, non avendo ricevuto notizie, riconvoca l’inventore; irritato, chiede conto degli studi e dei soldi. “Duce”, risponde quello: “Non sono riuscito ancora a cambiare l’odore, il colore e il sapore, ma si spalma già benissimo sul pane”!».

Sempre a proposito di pane, è più amara e realistica quest’altra: Mussolini, in un discorso proclama «Abbiamo tanto di quel grano che non sappiamo che farcene!». E una voce, dal fondo: «Provate a metterne un po’ nel pane!». Sto raccogliendo storie simili da anni, prima o poi ne farò un libretto. Il materiale è sterminato, e non sono affatto geloso di vedere ripubblicato, addirittura in edizione anastatica, come si fa con certi classici, Ius murmurandi in camicia nera, di Guasta & Ferri (ed. Le Lettere, pagine 11, euro 9,50). Guglielmo Guastaveglia e Luciano Ferri non erano storici, ma umoristi, rispettivamente direttore e braccio destro di Il Travaso delle idee, il più longevo settimanale umoristico italiano, uscito dal 1900 al 1966, con l’intervallo della seconda guerra mondiale. Guasta fu estromesso dalla direzione agli inizi del regime, perché non abbastanza fascista, e la riprese nel 1946. Aveva, insomma, conoscenze di prima mano, e Ius murmurandi (ovvero, Il diritto di mugugnare) ne è una prova esilarante.

Tuttavia, già alla sua prima uscita - nel 1982 - lo si poteva considerare un libro di storia, ovvero un documento utilissimo agli storici e agli appassionati. Come rileva Francesco Perfetti nell’eccellente introduzione a questa nuova edizione, alcune storielle sono «frutto di un puro divertissement, altre espressione, al contrario, di un reale malessere politico». Non a caso Giuseppe Bottai, il più colto e sensibile fra i gerarchi fascisti, nei suoi diari trascriveva puntualmente pasquinate e barzellette come «segni e testimonianze del tempo. Un modo, talvolta, di castigare i costumi, al quale s’avrebbe da porgere orecchio». (I Diari 1935-1944 e 1944-1948, nonché Vent’anni e un giorno di Bottai sono pubblicati nella Bur, e costituiscono uno straordinario documento globale del regime fascista visto da uno dei suoi più acuti protagonisti e osservatori).

Questo surreale scambio di battute, tremendo alla luce di quanto sarebbe avvenuto poco più di due anni dopo, viene annotato il 21 gennaio 1943: «Mussolini, nell’atto di scavalcare, nudo, la vasca da bagno, si guarda i genitali. “Che guardi, Benito?” gli chiede la signorina Petacci. E quello: “Gli ultimi due coglioni che mi sono rimasti attaccati”».

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