Saturna Englaro, la mamma che si consuma nell’ombra

Saturna Englaro, la mamma che si consuma nell’ombra

Una volta, era la primavera del 2005, incontrai Beppino Englaro nella sua casa di Lecco. Non mi conosceva, ma fu molto gentile e ospitale. Chiese soltanto se mi andava di parlare su una panchina del giardino condominiale, vicino a un abete, sotto un timido raggio di sole. Accettai volentieri, anche perché respirai netto un certo disagio dell’ospite: sicuramente non gradiva parlare di sé e di Eluana nel salotto di casa. Là dove solitamente la vita di una famiglia pulsa come un cuore, ma dove in quei giorni aleggiava soltanto una gelida sensazione di vuoto.

La casa vuota di Beppino Englaro era vuota della figlia per i motivi che sapevo. Ma non capivo perché fosse vuota anche di una madre. Parlando di tutto, della sua storia dolorosa e lancinante, papà Englaro mi chiarì il dubbio. In quelle stesse giornate, anche la moglie Saturna era in ospedale: operata per gravi complicazioni vertebrali, al termine di un’altra odissea personale.

Restai di sasso. Ma come, provai a dire, anche la sua signora sta così male? Beppino mi disse una frase che da allora non ho più scordato: «Se vuole immaginarsi l’inferno su questa terra, pensi a noi».
Poi, con calma, senza un solo aggettivo strappalacrime, usando parole essenziali e ruvide come la pietra della sua Carnia, mi svelò i risvolti umani, privati, intimi di quello che già allora era un grande caso politico. Un mezzo sorriso amaro, ricordò le dannate coincidenze della sua disgrazia: «La notte tra il 17 e il 18 gennaio 1992, quando Eluana volò fuori strada, io e mia moglie eravamo in settimana bianca in Val Pusteria. Era la prima volta che Eluana non veniva. Avevamo deciso di andarci dopo tanti ripensamenti. S’immagini: avevamo preso persino la Y10, la «baracchina», come la chiamava Eluana, per lasciarle la mia Bmw, così che lei si muovesse eventualmente più sicura... Niente. L’incidente successe di venerdì sera, tardi, ma i suoi amici riuscirono a raggiungerci soltanto il sabato mattina: stavamo caricando le valigie per tornare a casa. Posso dirlo: in quelle cinque ore di viaggio, mia moglie ha cominciato a morire...». Dov’è la mamma di Eluana? Perché non parla? Perché si sente e si vede sempre il papà? Alle domande di questo periodo, umane e legittime, io trovai risposta quel giorno, proseguendo nel dialogo sulla panchina, sotto il primo sole d’aprile.

Beppino continuò senza tacere e senza enfatizzare nulla. Raccontò con tenerezza di come la sua prima vita - così la definì - si fosse snodata nel modo più bello. L’incontro negli anni Settanta, a Basilea, dov’era per lavoro, con una studentessa di Urbino dal nome strano, Saturna. E poi il matrimonio in Italia, la decisione di far nascere la bimba fuori Milano, nel verde di Lecco. «Eluana arrivò nel 1970: fino a quella notte del 1992, mi creda, lei e sua madre sono vissute in perfetta simbiosi».

Ricordo che mi riuscì di pronunciare solo parole vuote e insulse, qualcosa del tipo: «Chissà quanto ha sofferto, dopo quella notte, sua moglie...». Beppino Englaro non aveva dimenticato nulla, neppure un giorno, del calvario familiare: «Per due anni, Saturna ha fatto la spola con l’ospedale di Sondrio, dove inizialmente avevano ricoverato Eluana. Quindi, quando la nostra piccola è tornata qui a Lecco, combinazione nell’istituto di suore dov’era nata, sua madre ha passato tutti i giorni allo stesso modo».
Le parlava, l’accarezzava, le sorrideva. Le portava peluche e fotografie. Le comprava biancheria e abiti di pregio, perché diceva che Eluana, già bella, doveva essere bellissima anche mentre dormiva. «Per nessun altro al mondo Eluana è quello che è per me», diceva. Questa madre mutilata aveva deciso di continuare la «simbiosi», una cosa sola con la sua creatura, delegando al marito il compito di combattere, fuori, la battaglia contro i sondini. Lei rinchiusa nel bozzolo del dolore, lui in trincea.
Non era però una vita che potesse tenere alto lo spirito e le difese organiche di una mamma annientata. «Già un paio d’anni dopo l’incidente a Eluana - raccontò Beppino su quella panchina - comparve un tumore al seno. Così, assieme alla battaglia per nostra figlia, ci trovammo a combattere anche questa. All’inizio ci sembrò di farcela. Ma nel 2002 ecco un’altra mazzata, una recidiva. Nuova operazione, nuova paura. E adesso ancora, un altro intervento, perché sono sorte complicazioni alla colonna vertebrale...».

In quel pomeriggio di aprile, compresi quanto dolore fosse confluito, tutto assieme, denso e concentrato come piombo, in questa anonima famiglia della nostra provincia. Soprattutto, mi fu chiaro il dettaglio più straziante dell’intera parabola: la povera madre, colpita dal male, non poteva neanche soffrire per se stessa, per il proprio futuro, presa com’era dall’angoscia inenarrabile per un altro futuro, quello di una figlia che aveva bisogno delle sue carezze, ma che lei non sapeva fino a quando avrebbe potuto accarezzare. Mi rimbombava opprimente e pietosa la domanda che già milioni di volte, certissimamente, aveva avvelenato l’esistenza di quella povera donna: come farà Eluana senza di me? Chi le darà carezze di mamma?

Ora sappiamo com’è andata. Come sta finendo. Mentre il papà combatte l’ultima battaglia, giusta o sbagliata che sia, la mamma sta malissimo. Beppino le fa da scudo, Beppino pretende di lasciarla fuori. Nel libro uscito qualche tempo fa, così ha descritto l’agonia spirituale della moglie: «Saturna si consumò come una candela, fin dal primo giorno, in attesa di un qualunque segno della sua Eluana. Ogni ora, ogni gesto erano riservati ad Eluana. Ma non entrarono più in contatto. Fu e rimase per lei un dolore acuto, insostenibile e inconsolabile. Un saccheggio dell’anima, cui non fu mai più possibile rimediare».

Dov’è la madre? Perché parla solo il padre? Alle giuste domande di queste ore, la prima risposta sembra elementare: la madre non c’è, la madre non parla, perché a sua volta è molto malata.

Ma è una spiegazione troppo semplice. In realtà, la mamma non c’è e non c’è mai stata, in questa cruenta e interminabile storia italiana, perché s’è fermata là, a quella notte, quando la sua creatura, la sua stessa vita, ha smesso di sorriderle.

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