Giorgio Saviane morì dieci anni fa a Firenze, città nella quale visse più di quarant’anni: complicazioni di una bronchite. Aveva appena terminato un romanzo autobiografico, dal titolo provvisorio Vita bella. È rimasto inedito ma grazie alla vedova, la signora Alessandra Del Campana (sposata due anni prima di morire, non senza suscitare commenti: lei era più giovane di 35 anni), oggi il Giornale può pubblicarne un brano. Giusto per fare capire cosa ci siamo persi.
Di professione avvocato, in arte scrittore, Saviane è un dimenticato di lusso. Gran parte dei suoi romanzi e racconti sono stati rieditati per le scuole e tradotti in più lingue, due di essi fanno parte dei «Capolavori del Novecento» nella collana De Agostini-Mondadori, eppure è dall’anno della sua morte che non ne parla più nessuno. Dopo i coccodrilli di rito, più niente. Dal 2000 a oggi neppure una riga, né su carta né sul web.
Eppure all’apice della sua carriera di narratore Saviane era popolarissimo e coccolato dagli editori e dai giornali. Mondadori, nel ’79, per strapparlo a Rizzoli sborsò cento milioni di lire. I suoi romanzi ebbero sempre grandissimo successo: erano veri best seller quando ancora il concetto di best seller non si era affermato. Come Il passo lungo (1965), Il mare verticale (1973), Getsèmani (1980), soprattutto Eutanasia di un amore, libro culto uscito nel 1976, premio Bancarella nel ’77 e che vendette un milione di copie anche grazie al film che ne venne tratto l’anno successivo, interpretato da Tony Musante e Ornella Muti per la regia di Enrico Maria Salerno. Il tema del romanzo, un’indagine sulla crisi di coppia e della famiglia e insieme un atto di accusa verso l’amore egoistico e pavido, non era affatto, in quel momento, una carezza. Eppure.
Saviane fu un autore conflittuale, inquieto, «complesso» come sottolineò Mario Pomilio nella prefazione a Il Papa (1963). Oggi diremmo «irregolare». Motivo per il quale, non essendo stato in vita né di destra né di sinistra, né ateo né cattolico - semmai uno spirito «in cerca»: il suo ultimo libro, del ’95, si intitola Voglio parlare con Dio - oggi non è ricordato da nessuno. Né a destra né a sinistra, né dai laici né dai cattolici. Peccato. Carlo Salinari, un critico non certo facile all’indulgenza, arrivò a dire di Saviane che sarebbe vissuto nel tempo. Purtroppo hanno invece avuto ragione i suoi oppositori, che lo accusavano di essere troppo «popolare», un autore di drammoni per palati poco fini... Saviane, da vivo, rispose loro: «Sì, sono popolare, ma nel senso che sono letto da tutti e, nello stesso tempo, mi ritengono un romanziere difficile. Per questo gli intellettuali non mi capiscono: gli intellettuali sono i meno adatti a leggere i libri difficili: li leggono in fretta o non li leggono affatto». Non aveva tutti i torti.
La moglie ci ha scritto: «Saviane era un donnaiolo impenitente, aveva conviventi, ex compagne, ex amanti.
In tutto questo marasma ho cercato di barcamenarmi e sono riuscita a sposarlo. Impresa non facile. Adesso mi batto per farlo ricordare, o meglio per non farlo dimenticare». Cerchiamo di darle una mano.
L'INEDITO
Colpevole fino a prova contraria. Il paradosso della giustizia malata
di Giorgio Saviane
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