Cultura e Spettacoli

La Scala celebra Franco Corelli, il Marlon Brando della lirica

Nella memoria il profilo slanciato e nobile di Franco Corelli è un tutt’uno con quello degli eroi romantici del melodramma che ha incarnato in maniera credibile e convincente. All’inizio degli anni Cinquanta del secolo passato la sua apparsa al Teatro alla Scala, fece clamore. Dopo il debutto al centro Sperimentale di Spoleto (nel prediletto Don José della Carmen) e ai primi successi al Teatro dell’Opera di Roma, Milano festeggiò il giovane tenore di Ancona in peplo e corazza: il proconsole Pollione della Norma di Bellini e il generale Licinio della Vestale di Spontini. Con l’ascesa, Corelli seppe intelligentemente definire il repertorio più congeniale al suo temperamento e alla sua voce, che si indirizzava verso il pieno romanticismo di Verdi. Il maggiore esperto di vocalità - e non solo - l’autorevole critico Eugenio Gara, segnalava il Licinio della Vestale (1954) come un ragazzo con le carte in regola e con tutta l’intenzione di rimanere per lungo tempo nella sala del Piermarini. «Le donne, e la cosa non guasta, avevano l’impressione d’aver trovato ciò che cercavano: il Marlon Brando della chiave di sol», ed era accanto alla Maria Callas degli anni dello splendore. Alla Scala Corelli fu un beniamino. Oggi, passato più di mezzo secolo dal suo debutto, lo si ricorda nel ridotto dei palchi scaligero per la presentazione del ricco ed elegante volume Franco Corelli. L’uomo, la voce, l’arte, scritto con impegno e competenza da Giancarlo Landini. Con l’autore ne parleranno Bruno Bartoletti e Carlo Fontana. Landini dimostra che il successo travolgente che accompagnò Corelli negli anni Cinquanta e Sessanta fu merito anche della sua prestanza fisica e del gesto appropriato, particolarmente efficaci nei personaggi verdiani. Ma soprattutto la piena maturazione giunse attraverso un lavoro di rifinitura senza soste.
Il referto del Professor Gara per il suo Ernani scaligero (1959) è impeccabile: al colore eroico, all’uguaglianza dell’emissione, all’equilibrio dei fiati, allo squillo gagliardo Corelli univa «una vocalizzazione facile e lucente, anche in quelle mezze voci che di solito l’heldentenor lascia volentieri da parte». E in Verdi oltre a Ernani, fu indimenticato Arrigo della Battaglia di Legnano, Don Carlo, Radamès, Don Alvaro, Manrico. Senza parlare del meyerbeeriano Raoul degli Ugonotti. Naturale la consonanza con gli eroi melodrammatici a cavallo fra Otto e Novecento: il Principe Ignoto (Calaf) della Turandot e il bandito Ramirez (Dick Johnson) della Fanciulla del West, Andrea Chénier e Loris (Fedora), Turiddu (Cavalleria Rusticana).
Le testimonianze discografiche ne sono prova: quale potenza e splendore nella scena degli enigmi di Turandot, in cui la gara canora con la non eguagliata fuoriclasse svedese Birgit Nilsson innescava d’entusiasmo la Scala. Lo stesso avveniva all’Arena di Verona e al Metropolitan, a Parigi come a Vienna.
Ma la testimonianza odierna dell'importanza che ha avuto Franco Corelli noi la riceviamo dal fatto che il mito dei nostri giorni - Andrea Bocelli - ha assunto il nostro come Modello e Guida. E si sente. L’aspetto umano di Franco Corelli colpiva altrettanto in profondità. Sulla maschera dell’eroe era sempre presente la tensione liberatoria dell’acuto per aver ragione del timor da palcoscenico che non lo abbandonò mai. Espungiamo dalla bella nota di presentazione al libro dettata da Carlo Fontana l’immagine di Franco Corelli che risponde agli applausi del pubblico dicendo: «Avrei potuto fare di meglio».

Ripetiamo anche noi: «Fu questa la sua condanna e la nostra gioia».

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