La Scala sedotta da un talento timido

Robin Ticciati, 22 anni, ha proposto due partiture russe senza strafare

Alberto Cantù

da Milano

C’erano una volta i giovani talenti pieni di fuoco. Prendete Yehudi Menuhin che, sedicenne, incide la Tzigane di Ravel col «vibrato fremente» del suo maestro e mentore Georges Enesco e con un estro rapsodico, una fantasia e languori da zingaro nato. Più la zampata di chi non teme nulla e nessuno.
Ci sono oggi i giovani talenti cauti. Non maturi anzitempo ma consapevoli che alla loro età affrontare una Sinfonia di Beethoven o di Brahms oppure una delle grandi partiture teatrali di Mozart è imprudente. Meglio crescere e nel frattempo, visto che la «provincia» e la gavetta non esistono più, evitare azzardi in quei grandi teatri e con le famose orchestre che li chiamano. Li invitano un po’ perché «largo ai giovani» che oltretutto fanno sensazione e tenerezza. Un po’ in quanto i Karajan non esistono più e al posto di una bacchetta «onorevole» e stop meglio «la novità».
«La novità» (relativa) di cui parliamo è Robin Ticciati, londinese classe 1983 che a ventidue anni ha già diretto due volte la Filarmonica della Scala - l’ultima lunedì, al Piermarini -, che sarà la più giovane bacchetta del prossimo Festival di Salisburgo (ma in un lavoro «minore» di Mozart: Il sogno di Scipione), che è stato nominato direttore musicale di un complesso svedese, che ha diretto e tornerà a dirigere la Staatskapelle Dresden, che debutterà al Gewandhaus di Lipsia e al Festival di Glyndeburne eccetera eppure il modo timido, quasi impacciato, con cui sale il podio e calca il palcoscenico, ci ricordano quanto disse di recente in un’intervista: «Ogni volta che dirigo devo vincere la paura, Ogni giorno ho qualcosa da imparare, non sono abbastanza bravo e maturo».
Alla Scala Ticciati ha proposto due partire russe andando a ritroso dal Novecento storico al secondo Ottocento. Ha chiuso con la Quarta sinfonia-autoritratto di Ciaikovskij (1877) partendo da Pulcinella (1920), la più geniale e affascinante partitura neoclassica di Stravinskij proposta integralmente: non l’usuale suite da concerto ma il balletto completo con la storiellina-pretesto di un astuto Pulcinella il quale vince la gelosia di due giovani intenzionati a ucciderlo. Nel nostro caso le voci (allievi dell’Accademia di perfezionamento scaligera) del mezzosoprano Ketevan Kemolidze, ancora un po’ acerba, del tenore Tiberius Simu, schietto e interessante e di un duttile basso buffo nostrano: Carlo Malinverno.
Come ha suonata la Filarmonica al gran completo in Ciaikovskij e a ranghi ridotti quanto impegnatissimi nell’organico da camera del Pulcinella? Bene. Come ha diretto Ticciati? Bene. Come ha risposto il pubblico, folto ma con un po’ di poltrone vuote? Benino dopo Pulcinella, partitura che nell’intervallo molti dicevano di ignorare, e benissimo dopo l’epilogo russeggiante della Quarta.
Era uno Stravinskij elegante e tenero se non timido, di bella leggerezza piuttosto che incline al ghigno grottesco e alla parodia terremotante.

Era un Ciaikovskji drammatico al punto giusto, lirico a dovere, non tanto «fantastico» nel Pizzicato ostinato, governato saldamente nel difficile Finale. Di più non ci vien da dire. Per pronunciarci aspettiamo letture che non siano «a rischio zero».

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