Scalfari ossessionato dal premier Ora teme che possa fare un golpe

Mario Sechi

da Roma

Le cose importanti che doveva dire le ha messe in fondo al pezzo. Nelle prime tre righe ha ricordato al volgo disperso che nome non ha che ci sono le elezioni, ma prima di arrivare al gran finale (di cui tra poco vi racconteremo) si è esibito nel numero che gli riesce meglio: il sermone sulle due Italie, quella buona e quella cattiva, quella onesta e quella del malaffare, quella colta e quella ignorante. Eugenio Scalfari non ci delude mai, la sua antropologica superiorità morale e intellettuale è per tutti noi una garanzia. Il suo sermone domenicale era men0o lungo del solito, più parco, meno ricco di citazioni dotte e ricorsi storici, niente illuminismo e niente Panunzio e meno dialoghi con Io, ma è stato come sempre una disamina del nostro Paese davvero incoraggiante, una Nazione a cui secondo il Fondatore «da molti secoli è mancata l’esperienza e la cultura dello Stato». Da molti secoli? A meno di non considerare l’impero romano qualcosa di simile a una democrazia e le altre esperienze pre-repubblicane un fulgido esempio di corretto rapporto tra Stato e cittadini, a noi risulta che la storia repubblicana sia di giusto sessant’anni. Anni in cui Scalfari ha giocato spesso un ruolo non del tutto marginale e sui quali - salvato il totem della Costituzione - egli getta un colpo di spugna per avventurarsi in uno spericolato parallelo tra Mussolini e Berlusconi («personaggi non privi di affinità profonde e analogie sorprendenti»).
Ma è nell’atto finale che Scalfari diventa irresistibile: prima avanza il dubbio che forse le elezioni non si vinceranno di larga misura e teme «che l’auspicata vittoria sia risicata», poi alza il volume del suo megafono di carta e spiega che «se quella anomalia verrà rimossa» bisognerà stare davvero attenti. L’anomalia su cui si punta il dito nobile del Fondatore è ovviamente Silvio Berlusconi. Scalfari non si trattiene, l’uso dei vocaboli ne tradisce i sogni, i desideri, le pulsioni interiori, i sentimenti profondi. Pensa che in quei quaranta giorni «prima che l’inquilino di Palazzo Chigi e i suoi ministri sgombrino le stanze del governo dalla loro presenza» possa accadere di tutto. Da notare il gentile verbo scelto, «sgombrare», quasi che al governo ci fosse un tiranno che ha conquistato nel 2001 il potere con un putsch e non attraverso libere elezioni.
Ma nell’immaginario di Scalfari Berlusconi non è un uomo normale, è qualcosa di inafferrabile, quasi dotato di superpoteri, perché è chiaro che «quaranta giorni sono brevi per persone normali» ma lui che «spera con tutto il cuore» di ingannarsi non dorme sonni tranquilli all’idea che «la squadra berlusconiana sarà senza più potere ma occuperà ancora le stanze e le manopole del governo».

Il potere, le manopole, le stanze sono l’ossessione della penna fondatrice, perché non si sa mai che il leader «covasse la folle idea di un gran finale sulla falsariga del “Caimano”». Dove il the end è un caos da golpe all’italiana.
Avviluppato dalla regia morettiana, Scalfari scrive una sceneggiatura parallela per un film che potrebbe intitolarsi «La folle idea». Di Scalfari.

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