Scalfari lo smemorato fa l'avvoltoio con Feltri

Il decano di Repubblica voleva la radiazione del nostro direttore. Ma dimentica che lui l’avrebbe meritata più di altri Per il manifesto su Calabresi "torturatore", per le false accuse scagliate contro Leone e per quel sodalizio con Sindona... Feltri costretto al silenzio: "Censurata una voce libera". La solidarietà dei nostri lettori

Scalfari lo smemorato 
fa l'avvoltoio con Feltri

Il decano della nostra categoria-l’ottanta­seienne Eugenio Scalfari - ha fatto l’altra sera uno scivolone. Si è forse rotto il femore? Peg­gio: ha scritto una brutta pagina di giornali­smo. Scritto si fa per dire, perché il vanitosone ha voluto pavoneggiarsi in tv con la barba sa­piente, i capelli color neve, le proverbiali gote rosa. Ha impettito il busto davanti alla teleca­mera e se n’è uscito, all’incirca, così: «Che Vit­torio Feltri non sia stato radiato, mi ha stupi­to ». Ha omesso di aggiungere, «dolorosamen­te », preferendo esprimere il risentimento con l’indignazione del viso, l’aggrottare delle so­pracciglia e gli altri accorgimenti che nefanno da decenni la coscienza della Nazione. Per lui, dunque, il collega imputato del caso Boffo avrebbe dovu­to dare l’eterno addio alla professione. E questo, fran­camente, non fa onore al pa­ladino di tutte le libertà qua­le da mezzo secolo è il Mae­stro. Da una personalità co­sì ci saremmo attesi la stes­sa benevolenza per gli erro­ri altrui che Egli ha genero­samente dimostrato per i propri. Si dice che, con l’accumu­larsi delle primavere, si in­debolisca la memoria del presente ma si rafforzino i ri­cordi del passato. Se Scalfa­ri fa eccezione, può volere dire due cose: o che non ha mai avuto coscienza delle proprie porcherie o che or­mai si è bevuto il cervello. O le due cose insieme. Chi è Gegè, come lo chia­mavano in gioventù gli ami­ci per le sue arie da gagà? Ri­sposta: uno che - se avessi­mo un Ordine dei giornali­sti con la schiena dritta - sa­rebbe già stato fermato da lustri e la lista delle sue ca­stronerie, giornalistiche e umane, sarebbe meno lun­ga. Scalfari è tra coloro che hanno indicato agli assassi­ni di Lotta Continua il bersa­glio di Luigi Calabresi, falsa­mente accusato dell’omici­dio dell’anarchico Pinelli. Il commissario fu ucciso dai terroristi di Adriano Sofri nell’aprile del 1972. I man­danti morali furono i giorna­li di sinistra - tra i quali si di­stinse il settimanale L’Espresso , creatura del Ma­estro - che nei mesi prece­denti si erano scatenati con­tro di lui. Gegè volle però da­re un’impronta più persona­le all’infamia. Promosse una sottoscrizione, alla qua­le aderirono ottocento «in­tellettuali » - tra cui lui e la sua redazione - di un mani­festo che definiva Calabresi «commissario torturatore» e il «responsabile della fine di Pinelli». Benedì, inoltre, un’altra iniziativa con cui si intimidiva la magistratura che aveva denunciato i mili­tanti di Lc per istigazione a delinquere. Una lettera aperta al procuratore di To­rino, autore della denuncia, firmata da diversi redattori di Scalfari, tra i quali l’attua­le moglie del Maestro, Sere­na Rossetti. I sottoscrittori si schieravano in difesa di Sofri & co., affermando orgo­gliosi di condividerne l’illu­minata visione. Ecco un sag­gio della prosa: «Quando i cittadini da lei imputati af­fermano che in questa socie­tà “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di re­pressione della lotta di clas­se”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni so­no ladri, è giusto andarci a riprendere quello che han­no rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con lo­ro. Quando essi si impegna­no a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfrutta­mento”, ci impegniamo con loro». Questo erano Gegè e la sua cerchia. Pensare che qualche anno dopo, da di­rettore di Repubblica , il Ve­nerando si scaglierà come un nume babilonese contro Bossi per l’iperbole da scola­retto degli «otto milioni di baionette padane». Tipica indignazione farlocca di un consumato ipocrita che rin­faccia la pagliuzza nell’oc­chio altrui e glissa sul tron­co piantato nel suo cervello. Eugenio - nell’indifferen­za dell’Ordine che oggi bac­chetta per non avere radia­to Feltri - ha usato il mestie­re per calpestare la verità e farsi i propri interessi. Negli anni Sessanta, ha falsamen­te accusato il generale dei carabinieri, De Lorenzo, di tentato golpe. Per mettersi al riparo della condanna pe­nale che la bugia gli aveva fruttato, grazie all’immuni­tà che ora esecra, si è fatto eleggere in Parlamento col Psi di Pietro Nenni. Così ­pur essendo ricco come l’Aga Khan- si gode oggi an­che la pensione frutto della menzogna che ha rovinato la vita di De Lorenzo. Che fosse una bidonata, è ormai assodato per ammissione di Lino Jannuzzi, il giornalista che fece con lui il finto sco­op. Una ventina di anni do­po, Lino, rinsavito, rivelò in­fatti che avevano montato la panna sulla base di una documentazione manipola­ta del Kgb sovietico. Queste le fonti del disinvolto Mae­stro. Ritroviamo lo zampone dell’illustre decano anche nelle false accuse che co­strinsero il presidente Leo­ne a dimettersi dal Quirina­le nel 1978. Furono i giorna­listi dell’ Espresso , Melega e Camilla Cederna, a sparge­re i veleni. Gegè, dalle colon­ne di Repubblica , aggiunse batteri alla stricnina e, sem­pre con l’aria di portare puli­zia nel Paese, distrusse un innocente. Con l’arma del giornalismo malandrino, perseguiva un fine politico: eliminare un ostacolo all’av­vento del compromesso sto­rico col Pci, a lui gradito e avversato da Leone. Il Vene­rato sperava così di plasma­re a sua immagine l’Italia, scolpire il suo nome sulla pietra e passare - alla faccia del rivale Montanelli - per il superfico del bigoncio gior­nalistico. Vi sembra che abbia ono­rato la professione uno che è stato pappa e ciccia col te­soriere della mafia, Michele Sindona, prima di voltargli le spalle e affossarlo? Men­tre era deputato, a Gegè ven­ne l’uzzolo di fondare un quotidiano, la futura Repub­blica . Si mise alla ricerca di finanziatori. Ci provò con Eugenio Cefis, ci riuscì con Carlo De Benedetti, Nell’in­termezzo, cercò l’aiuto di don Michele che stava sca­lando con un’Opa la Basto­gi. Una notoria truffa. Ma Scalfari, per sedurlo, ne di­venne complice. Presentò, a nome del Psi, un’interro­gazione di totale appoggio all’Opa. In un soffietto di quarantatré righe, il deputa­to affermò che «la serietà dell’offerta era comprova­ta » e che essa «favoriva una massa di oltre tremila picco­lo azionisti». In sostanza, una meraviglia. Appena se ne accorse, Riccardo Lom­bardi, responsabile Psi per l’economia, lo convocò invi­perito. «Scalfari, ricordi che prima di impegnare il parti­to deve chiedere l’autorizza­zione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Messo alle strette, Gegè far­fugliò: «Ne avevo parlato con Giacomo Mancini». Non era vero, ma Mancini ­che era il suo protettore - lo coprì. Don Michele si profu­se in ringraziamenti e pro­mise i soldi per Repubblica . Due anni dopo, però, fece fallimento. Il Maestro, per cancellare le impronte, co­minciò ad attaccarlo furio­samente. Per l’eccelsa pen­na, l’ex amico in disgrazia di­venne «il bancarottiere». Immemore delle untuose sviolinate di poco prima, ac­cusò questo e quello - con particolare lena, Andreotti ­di complicità col finanziere sul lastrico. Ne chiese la ga­lera e la ottenne.

Si carezzò la barba e prese la posa del salvatore della patria. Le imprese del Nostro non finiscono qui, ma lo spa­zio a disposizione, sì. Vi chiedo: può un simile esem­plare giornalistico fare la predica a chicchessia?

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