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Lo scenario I nuovi capi già divisi

La vittoria di ieri rischia di diventare la catastrofe di domani. A pagarne le conseguenze saranno l’Italia, privata del suo petrolio e minacciata da nuove ondate migratorie, e l’intero bacino occidentale del Mediterraneo costretto a far i conti con una Libia trasformata in una nuova Somalia. La Nato lo sapeva bene, ma ha deciso di giocare il tutto per tutto. Con l’avvicinarsi a fine settembre della fatidica scadenza dei sei mesi doveva scegliere tra un’umiliante fine missione ed un complesso rinnovo del mandato per l’imposizione della “no fly zone”. In alternativa ha scelto l’incognita delle 46 missioni aeree che tra sabato e domenica hanno aperto ai ribelli le porte di Tripoli.
Ma quei ribelli condotti per mano nella Piazza Verde sono la vera incognita per il futuro della Libia, dell’Italia e del Mediterraneo. Le loro contrapposizioni interne sono la prova più evidente della loro inaffidabilità e della loro pericolosità. I combattenti di Misurata, protagonisti assieme a quelli berberi della conquista della capitale, fanno già sapere di non accettare l’autorità del Consiglio di Transizione Nazionale di Bengasi considerato da 30 Paesi occidentali - tra cui l’Italia - l’unico e legittimo rappresentante del popolo libico.
Forse sono più lungimiranti di noi. L’autorità del Consiglio di Transizione di Bengasi si è infatti dissolta da almeno due settimane. Il 9 agosto Mustafa Jalil, l’ex ministro della Giustizia leader della ribellione, ne ha decretato lo scioglimento in seguito all’uccisione in una faida interna del generale Abdel Fattah Younes. Dietro quella decisione si nasconde la necessità di evitare una guerra fratricida con gli Obeidi, le tribù di Younes pronte a marciare da Tobruk su Bengasi. Queste perniciose divisioni interne hanno finito con il minare l’autorità di tutta la fazione cirenaica. «Le vicende legate all’uccisione di Younes dimostrano la loro incompetenza, non abbiamo certo sacrificato la vita dei nostri per cadere nelle mani di politici di quella risma», spiegano oggi i capi delle fazioni berbere avanzate dalle montagne al confine con la Tunisia.
Dunque dietro la promessa di Bengasi di formare un governo provvisorio entro 30 giorni si nasconde il nulla. O peggio il rischio di una guerra tra fazioni capace di trasformare la Libia in una nuova Somalia. I primi a combatterla saranno le tribù della Sirte e gli altri clan fedeli a Muammar Gheddafi disposti a tutto pur di non accettare l’egemonia degli intrusi cirenaici. Ma a giudicare dalle premesse anche gli anti gheddafiani di Misurata e delle montagne occidentali potrebbero affidarsi alle armi per tenere alla larga i rivali.
In questo già confuso scenario non va sottovalutato il ruolo degli eredi del Gruppo combattente Libico considerato un tempo la succursale locale di Al Qaida. Presenti sia in Cirenaica sia a Misurata, i gruppi jihadisti hanno tenuto finora un basso profilo mimetizzandosi con il grosso delle formazioni ribelli per partecipare alla spartizione degli aiuti occidentali. Grazie all’esperienza dei loro veterani rappresentano le formazioni militarmente più efficaci, capaci - in un prossimo futuro - di giocare un ruolo determinante nella corsa al potere.
A 24 ore dalla caduta di Tripoli l’ombra di una nuova Somalia con il suo carico di fanatici fondamentalisti, bande di pirati e migranti in fuga si staglia all’orizzonte del Mediterraneo.

E minaccia prima di tutto le coste del nostro Paese.

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